Moby Dick è un grande classico della letteratura, un libro complesso all’apparenza semplice. Scritto nel 1851, continua ad essere pubblicato, letto, interpretato. Tutti sanno di cosa tratta: della caccia a una balena bianca di nome Moby Dick da parte del capitano Achab e dell’equipaggio della sua nave, il Pequod.



Il libro però è molto più profondo di quanto possa sembrare all’apparenza.

Tutto in Moby Dick sembra essere fuori dal tempo e dallo spazio: la caccia sembra non finire mai, il Pequod veleggia sulle acque di oceani senza fine, tutto sembra muoversi e stare fermo allo stesso tempo. Tutto il libro parla di avventura, di ricerca, e di fede. Lo aveva compreso perfettamente il primo traduttore italiano del capolavoro di Melville, Cesare Pavese: “Leggete quest’opera (Moby Dick) tenendo a mente la Bibbia e vedrete come quello che vi potrebbe anche parere un curioso romanzo d’avventure , vi si svelerà invece per un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano”.



La Balena, che inizialmente per Pavese rappresentava il vuoto, il nulla mostruoso, sottende il mito, un conflitto cosmico ancestrale accettato stoicamente.

Così scriveva il grande scrittore piemontese: “La coerenza del libro si celebra proprio in questa tensione che l’ombra fuggente del mistico Moby Dick induce nei suoi ricercatori. (…) La ricchezza di una favola sta nella capacità che essa possiede di simboleggiare il maggior numero di esperienze. Moby Dick rappresenta un antagonismo puro, e perciò Achab e il suo Nemico formano una paradossale coppia di inseparabili. Dopo tante disquisizioni, tanti trattati e tanta passione, l’annientamento davanti al sacro mistero del Male resta l’unica forma di comunione possibile”.



Pavese aveva colto di Moby Dick l’aspetto di sacralità di questa opera. Un sacro che riconduce alla Divinità, in una forma misteriosa, celata, tutta da decifrare, e alle sue manifestazioni, che agli occhi dell’uomo possono apparire anche negative, oltre che incomprensibili. 

Quella raccontata nel romanzo di Melville dunque è vera e propria epica. L’epica rappresenta la più antica forma di narrativa, e spesso costituisce anche una sorta di sintesi del sapere religioso, culturale e politico di una civiltà.

Il fulcro dell’epica è costituito dalle gesta dell’eroe, che si caratterizza per le sue particolari qualità, sia che si tratti di virtù che di difetti.  

Melville realizzò l’epica della giovane America dell’800 che aveva conquistato con la forza l’indipendenza, distaccandosi dalle sue radici britanniche ed europee, lanciandosi alla conquista di nuove frontiere. È l’epica di una nazione ma anche di un tempo, l’800 positivista e scientista, che vuole sfidare le leggi della natura e di Dio, che con la tecnica decide prometeicamente di scalare i cieli. 

I poemi epici di tutte le letterature tuttavia attingono a un patrimonio di miti preesistente; Melville quindi attinge agli elementi dell’epica più antica, quella che vedeva uomini senza paura affrontare le sfide del mare: l’Iliade, l’Odissea. 

La follia tragica di Achab sembra rievocare invece gli eroi antichi, contrapposti ad un destino avverso, che si ergevano orgogliosamente sotto un cielo privo di dèi.

Melville ha riportato in superficie – è il caso di dirlo − il relitto dell’epica antica, e lo ha rimesso in navigazione.

Quando nel 1851 Moby Dick fu pubblicato, sulla rivista inglese John Bull apparve un articolo anonimo, in cui si leggeva: “Fra tutti i libri straordinari usciti dalla penna di Herman Melville questo è di gran lunga il più straordinario. Chi sarebbe andato mai in cerca di filosofia tra le balene e di poesia nel grasso di balena? Eppure pochi, tra i libri che trattano professionalmente di metafisica o reclamano una parentela con le muse, contengono vera filosofia e genuina poesia come la storia del viaggio a balene del Pequod”.

Occorre dunque riscoprire questo libro straordinario, che affronta i temi di un’odissea oceanica: senso della vita, presenza del destino, psicologia del profondo, lotta contro il male, buio teologico. Così come gli antichi poemi epici hanno influenzato profondamente tutta la tradizione culturale e letteraria dell’Occidente, rappresentando degli archetipi con cui hanno continuato a confrontarsi autori di epoche successive, che li hanno considerati modelli di stile e grandi repertori di personaggi e temi, vicende e situazioni eroiche e avventurose, così l’epica dimenticata di Moby Dick, espressione della modernità occidentale, della sua ricerca, dei suoi dubbi e delle sue follie, deve tornare a stupire il lettore e ad interrogare la sua coscienza.


Paolo Gulisano è autore di “Fino all’abisso. Il mito moderno di Moby Dick”, Àncora, 2013.