Ogni tanto i luoghi comuni devono essere almeno rimessi in dubbio. È quello che ho pensato arrivando a Mosca in una giornata settembrina di pioggia caparbia, che ha reso liquida la Russia per tutti gli otto giorni in cui l’ho percorsa e visitata. Un pool di enti (l’Associazione Conoscere Eurasia del consolato di Russia, l’Istituto Italiano di Cultura di Mosca e Banca Intesa Russia col suo infaticabile prof. Antonio Fallico) da tre anni organizzano viaggi di scrittori italiani in Russia e russi in Italia. Sbarchiamo a Mosca in otto, due giornalisti, cinque narratori e un unico poeta, il sottoscritto, e si presenta immediatamente per quel che è: una città imperiale.
Tutto è grande, a cominciare dai casermoni della periferia intorno alla superstrada Leningradskoe, che s’infila dall’aeroporto in centro (quante corsie ha? Otto, dieci?) e sono da un lato made in Urss, dall’altro molto più recenti, più grandi e belli, ma sempre casermoni. Qui ogni imperatore, anche quelli sovietici, ha tracciato un segno: ognuno di loro, fino a Kruscev e Breznev, arrivava, smantellava un quartiere magari di casette e viuzze e costruiva un palazzo nuovo e vasto. Tutto a Mosca parla di una grandezza che ha mezzo millennio, ma continua ad essere in costruzione. La skyline oleografica, col Cremlino più i sette grattacieli anni Trenta, bianchi e gotici, staliniani (il più celebre è quello dell’università Lomonosov, ma uno è anche albergo) costruiti sui sette colli della città (proprio così), è oggi notevolmente modificata da grattacieli recenti che spuntano dappertutto, pure in centro, isolati, a coppie o a gruppi, fino al quartiere di Moscow City, dov’è il nostro albergo, avveniristico e scintillante, i cui altissimi grattacieli prendono spunto per architettura e mole più da Dubai che da New York. Di un paio di questi non scorgiamo mai la cima, coperta tutto il tempo dalle nuvole.
Mosca è una città in continuo movimento ed espansione. Probabilmente metà dei russi vorrebbe venirci a vivere. Poco tempo fa l’abitato ha raggiunto tutta la corona di città che la circondava e che, con una legge, fa ora parte del territorio comunale. Tre grandi circonvallazioni concentriche tentano inutilmente di ordinarne il traffico imponente: c’è gente che passa anche quattro ore al giorno in macchina. Quanti abitanti abbia non l’abbiamo mai capito: qualcuno ci ha detto quindici, altri diciotto, o venti milioni. Anche al minimo delle stime, è almeno il doppio di Londra e cinque volte Roma. Andrej Zvezdenkov, il nostro capo-delegazione (oltre che valente fotografo) mi spiega che se in una piattaforma siberiana di gas naturale trenta operai lavorano all’attività estrattiva, a Mosca operano almeno cento marketers che trafficano su quel gas estratto dai trenta (marketers è una parola che usano molto, mentre da noi si sente meno: ma ormai, si sa, ogni lingua inventa il suo inglese).
Questo significa che c’è molto lavoro, ma anche lavoro virtuale. Un terziario aggressivo che pone la Russia tra i paesi velocemente emergenti (la seconda lettera dell’ormai celebre Brics), ma anche a rischio di implosione.
È anche una città estremamente vivace dal punto di vista culturale. Continua ad esistere l’Unione degli scrittori, di sovietica fondazione, una cosa impensabile da noi. Uno dei nostri, Andrea Bajani, narratore einaudiano della nuova generazione, spiega ai colleghi russi durante una tavola rotonda che il fatto che otto scrittori italiani, costretti a una convivenza di otto giorni, siano andati d’accordo, è un miracolo. Figurati fare un’Unione degli scrittori. I colleghi russi ci rivelano che i giovani non si interessano né iscrivono all’Unione; scrivono, recitano, cantano, ballano ed esprimono una miriade di forme d’arte che pullulano in città ma anche su internet, esattamente come da noi.
A Mosca basta un giretto in pullman per scorgere negozi di tutti i tipi, di tutte le marche, russe e occidentali; a centinaia anche quelle italiane. Le insegne estere mantengono i caratteri latini: evidentemente i russi li leggono tranquillamente, assieme al cirillico. “Eccetto una” mi fa notare un altro degli amici scrittori italiani, Luca Doninelli “McDonald’s. L’insegna è translitterata in cirillico. Da qui si vede la loro genialità di marketing”. C’è un sentore diffuso di ricchezza. La città è in effetti costosa, ma anche pulitissima e ordinata in ogni angolo. Di notte è come se uscisse dal grigio e dalla penombra del giorno e comparisse grazie all’abbondanza della sua luce. Evidentemente questa è una nazione che non ha problemi energetici. La strada Novoj Arbat (l’antico Arbat era il mercatino centrale) è zeppa di negozi e locali, dopo mezzanotte s’affolla di gente, la chiamano la Las Vegas russa. Un’altra grande strada, la Tverskaja, di notte è più austera, anche se pure splendente, per i tanti alberghi e teatri; in occidente la vedevamo in tivù per la parata militare, che attraverso la sua lieve pendenza porta gli schieramenti militari alla Piazza Rossa. Ma i palazzi illuminati, i supermercati dentro saloni liberty, gli spazi, i grandi incroci, le statue degli scrittori e degli scienziati sottolineano quell’aria di imponenza e vita che soprattutto di notte sembra esprimersi al massimo. Nel grande piano della Piazza Rossa due enormi palchi (neppure uno solo) con migliaia di sedie promettono iniziative e spettacoli. Al centro, un po’ cupo e disertato ormai dai visitatori, il mausoleo di Lenin è transennato e irraggiungibile. Il Cremlino invia un richiamo da dietro il grande muro rosso che lo chiude: l’intravedere delle sue cupole d’oro e dei palazzi del potere di ogni tempo, fino allo zar attuale, promette visioni di bellezze uniche al mondo.
(1 − continua)