Anna Maria Ortese (Roma 1914, Rapallo 1998) è certamente una dei più importanti autori del Novecento italiano, anche se ancora poco conosciuta ed apprezzata. Non poca responsabilità ricade sulla scuola: raramente accade che nelle nostre aule echeggino le voci più significative delle inquietudini del nostro tempo. Anna Maria Ortese fu una creatura della penombra; ebbe una vita raminga, appartata e solitaria. Nonostante abbia pubblicato con i più grandi editori italiani, condusse per lunghi anni vita miserrima, tanto che le fu concesso il vitalizio previsto dalla legge Bacchelli.
Folgorante fu l’apparizione di Il mare non bagna Napoli, fortemente voluto da Vittorini, uscito nei Gettoni di Einaudi nel 1953, giusto sessant’anni fa. Seguirono poi negli anni altri grandi libri, come L’Iguana nel 1965, Il porto di Toledo nel 1975 e Il cardillo addolorato nel 1993.
Ma Il mare non bagna Napoli resta il suo libro più straordinario. Raccolta di racconti, è celebre soprattutto per l’ultimo, Il silenzio della ragione, durissimo attacco, con tanto di nomi e cognomi, agli intellettuali napoletani degli anni 50, accusati di pavidità e di opportunismo. La scrittrice scontò duramente la reazione dell’establishment: non tornò più a Napoli, se non per una brevissima e nostalgica visita.
Nella riedizione del libro del ’94 l’Ortese ritorna su quelle pagine lontane per ravvedervi non un attacco alla città che amava, ma il riflesso di una nevrosi, di un male oscuro di vivere: così Napoli diventava uno schermo utile a proiettare il suo “spaesamento”. Ma di quale natura era tale spaesamento? “Da molto, moltissimo tempo, io detestavo con tutte le mie forze, senza quasi saperlo, la cosiddetta realtà: il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte. Questa realtà era per me incomprensibile e allucinante”. “L’inerte orrore di vivere” che segna i suoi personaggi era certo acuito dalle condizioni in cui usciva l’Italia, e specialmente Napoli, nell’immediato dopoguerra. La città di ogni incanto e di ogni orrore riceve allucinata descrizione nel racconto più sconcertante, La città involontaria. Nessun lettore può avere dimenticato questa impressionante discesa agli Inferi, omaggio a Dante, reportage giornalistico su un agglomerato ricavato su un’ex caserma borbonica a Portici ( il cosiddetto III e IV Granili), dove vive un’umanità degradata, uscita dalla guerra in condizioni disperate. Le condizioni igieniche sono spaventose: è il regno dei topi, dei ragni, dei vermi. Ci vengono incontro larve, che un tempo furono uomini, che “strisciano o si arrampicano o vacillano”; studiosi americani, recatosi in visita all’edificio, se ne ritraggono inorriditi. I bambini hanno perduto qualsiasi innocenza: maliziosi e sordidi, consunti dai vizi e dall’ozio, “furbi e desolati” a un tempo, si aggirano intorno a visitatori e giornalisti con petulante insolenza. Assistono normalmente all’accoppiamento dei genitori, ripetendolo per gioco. Nonostante la vita scorra in qualche modo, tutto sembra pietrificato in una “inerzia sconsolata. Non si aspettava nulla, e nessuno”. Qualche medico e qualche prete si muovono tra queste creature “stupefatte” (aggettivo caro all’autrice), dove anche Dio sembra assente.
Ma non si tratta di elencare mostri o di misurare atrocità, perché l’orrore non ha misura, come sapevano due auctores della Ortese, Conrad e Virginia Woolf: rievocando la genesi del libro, la scrittrice dice di aver scelto tra misura e visione, e di aver preferito la visione.
La prosa della Ortese, intinta nel veleno dell’accusa e, insieme, in una grazia stravolta, sembra toccare i vertici di alcune pagine di Kafka, Borges, Dickens o forse ancora di più del Manzoni dei capitoli sulla peste. Ma come nei maestri, la scrittrice non si arrende all’orrore, rendendo testimonianza a qualcosa ancora più forte dell’intollerabile visione. Accade nelle ultime pagine del racconto, quando l’autrice si sofferma su una bambina di due anni, muta e dal corpo scheletrito. Giace in una culla ricavata da una cassetta di Coca Cola, in un lettino privo di biancheria, sotto una giacca da uomo, incrostata e dura. Il viso è delicato e bianchissimo, “illuminato da due occhi dove brillava l’azzurro della sera, intelligenti e dolci“. Solo una volta aveva visto la luce del sole, restandone stupefatta. Anche ora, allo sguardo dell’autrice, la bambina “era meravigliata: i suoi dolci occhi scrutavano di volta in volta il soffitto altissimo, le pareti verdastre, si ritraevano e tornavano continuamente sul raggio della lampada, che forse le ricordava qualcosa. Non vi era in essi tristezza e neppure dolore, ma il senso di un’attesa, di una pena scontata in silenzio, con la sola vita di questa attesa, di una cosa che poteva venire di là da quei muri immensi, da quell’alta finestra cieca, da quel buio, quel tanfo, quel sentore di morte“.
Il lettore può riandare alle pagine che il poeta di un altro orrore, Primo Levi, dedicò al piccolo Hurbinek ne La tregua e a quell’infanzia violata dalla Storia. Ma ci sembra che questa pagina di Anna Maria Ortese abbia la stessa natura del finale, splendido, de Le città invisibili di Italo Calvino. Di fronte al grande imperatore, per il quale “tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale”, Marco Polo risponde: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventare parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio“.
Anna Maria Ortese chiude il suo reportage dal profondo dell’inferno, dove ha visitato le anime della città involontaria, indugiando su una bambina in cui, più forte della desolazione, vive l’attesa “di una cosa che poteva venire di là da quei muri immensi“.