In Val di Susa assistiamo da qualche tempo ad una dinamica in qualche modo unica nell’attuale democrazia europea. Ossia al fatto che una protesta civile e pacifica venga strumentalizzata da forze antidemocratiche e antagoniste come legittimazione del proprio agire. In questo senso è necessario distinguere con la massima cautela le origini pacifiche del movimento No Tav dai militanti dei centri sociali e dei gruppi anarchici e anarco-comunisti italiani provenienti da Milano, Trieste, Firenze fino alla Sicilia, e dall’estero, innanzitutto da Francia, Spagna, Austria e Germania. Inutile chiedersi quindi cosa c’entrano loro, che in parte agiscono come black blocs, con la questione della Tav, dal momento che il loro obiettivo è di trovare un motivo che legittimi le loro azioni anarchiche. Usano le piattaforme di proteste pacifiche per la resistenza violenta, e così non sorprende affatto se si lasciano evidenziare delle connessioni tra gli atti violenti in Val di Susa con quelli a Roma del 15 ottobre di due anni fa. 



Proprio per questo fine settimana, come sappiamo, si teme per una reiterazione della violenza nella Capitale. Poco importano le divisioni al loro interno tra anarchici insurrezionalisti e autonomisti, perché ormai la Val di Susa è diventata il laboratorio in cui poter sperimentare la lotta violenta, che si deve spingere sempre oltre, e che deve “fare il salto di qualità”, come le Nuove Br Davanzo e Sisi incitano dalla prigione di Catanzaro, per poi esportare le esperienze e conoscenze acquisite anche in altre città o paesi. Il loro bersaglio sono le istituzioni liberali stesse – quelle democratiche e quelle economiche.



“Presto ci potrebbe scappare il morto” – da poche settimane ormai questa sembra l’unica frase condivisa da tutti: dai No Tav radicali come anche da parte del governo. Il “salto di qualità”, inoltre, non è solo da riferirsi al grado di violenza e all’intensità degli attacchi allo stato istituzionale, ma soprattutto agli schemi legittimatori impliciti. È evidente che per i radicali la responsabilità del “morto” sarebbe tutta a carico del governo e delle forze dell’ordine in quanto “provocatori”, di modo che il “morto” stesso divenga il simbolo o il martire che possa poi continuare ad alimentare la lotta continua.



In questa situazione di confronto armato, i No Tav pacifici si auto-comprendono come le uniche istanze democratiche rimaste – confermate e legittimate da personaggi pubblici come il filosofo Vattimo e il costituzionalista Rodotà, ed evidentemente da forze politiche come il Movimento 5 Stelle. Il movimento pacifico, che combatte per salvaguardare la valle dall’impatto ambientale che produrrebbe il progetto di alta velocità, non si è mai distanziato in maniera veramente chiara e distinta dalle azioni violente dei No Tav. 

Inizialmente ha persino esteso la portata del problema della Val di Susa ad una protesta nazionale, e solo in risposta alla lettera di Davanzo e Sisi ha formulato, con Alberto Perino, un distanziamento inequivocabile dai gruppi violenti. È così che ora esso pretende di apparire come la realizzazione più pura della democrazia italiana, come afferma Erri De Luca: “La battaglia contro la Tav in Val Susa è la più bella lotta civile e democratica del nostro Paese da una decina di anni a questa parte”.

Ciò sarebbe condivisibile soltanto se si ritenesse che la democrazia si possa ridurre a cortei e a proteste, sebbene pacifici, in realtà essa è molto di più: è dialogo costruttivo, rappresentanza, rispetto della maggioranza, sicuramente anche risoluzione della protesta e del conflitto di interessi. La democrazia allora è più di un’esperienza di protesta, essa implica infatti la responsabilità e il rispetto di una serie di istituzioni che garantiscano l’uguale libertà di tutti, e non soltanto di un gruppo di persone. Sebbene la rivendicazione delle proprie idee e la lotta in nome di esse sia un possibile mezzo per realizzare questa libertà, esse però non costituiscono il fine della democrazia. Ciò non significa che si possa facilmente tralasciare questo mezzo, come è stato pure tentato da parte istituzionale – governi, partiti, ecc. –, nel nome dell’ordine e di piani strategici nazionali. È indubitabilmente vero che la considerazione dell’opinione dei No Tav pacifici ha portato due anni fa a una completa revisione del piano esecutivo, e che la decisione sul Tav corrisponde ai requisiti della nostra democrazia. Ma la popolazione oggi non chiede più soltanto di essere amministrata, essa vorrebbe essere coinvolta nei molteplici livelli decisionali. Difficilmente si può dichiarare, come ha fatto il presidente della regione Piemonte Roberto Cota, che un’elezione regionale sostituisca un referendum sul Tav.

Si lascia quindi constatare come il sopravvento dei gruppi radicali e violenti abbia fortemente destabilizzato la comprensione democratica di quelli che dovrebbero essere i due veri attori della causa, ossia il movimento civile No Tav e l’opinione democratica istituzionale. Il falso dualismo “Stato” vs. “popolazione”, preparato e fomentato dalle continue proteste, dai loro leader e strumentalizzato dai gruppi estremisti, è fuorviante, dal momento che il senso della democrazia consiste proprio nel superare tale antitesi. 

C’è poi quella dimensione che tutti i No Tav non considerano, e cioè che il vero sovrano e quindi il punto di riferimento rimane il popolo in quanto tale, e non in quanto gruppo particolare. Se le odierne strategie/strutture parlamentari, in teoria volte ad includere ciò che politicamente è il popolo, non soddisfano più le stesse esigenze democratiche, allora probabilmente sarebbe opportuno rivalorizzare, nell’orizzonte delle istituzioni già esistenti, uno strumento più diretto di democrazia, ossia il referendum. 

Ciò che interessa non è tanto la domanda, pur importante e fondamentale, su chi dei due attori, i No Tav oppure il governo, avrebbe dovuto proporlo, ma piuttosto perché nessuno dei due lo abbia ancora fatto. Forse così si sarebbe riusciti a contribuire alla formazione della volontà politica più all’interno dei processi formali della democrazia stessa – e ciò prima che la Val di Susa si prestasse a diventare la piattaforma legittimatrice  di quella violenza anarchica ed autonomista radicale. Se proprio in Italia certe forme di protesta duratura evolvono con particolare propensione in azioni violente di antagonismo radicale, allora il rafforzamento democratico e la responsabilizzazione della popolazione dovrebbero essere tra le prime priorità. Quello di interpretare un’elezione regionale o persino nazionale come un referendum su una questione specifica, oppure di identificare il referendum con il conteggio delle persone che si radunano alle manifestazioni, peraltro in decrescita drammatica rispetto agli inizi, non sono modi di valorizzare la democrazia.

Evidentemente, alla questione di un eventuale referendum sono connesse molte questioni specifiche. Innanzitutto non dovrebbe essere realizzato soltanto nelle province della Val di Susa stessa, ma dovrebbe estendersi almeno a livello regionale, data la portata strategica ed economica del progetto. Tramite un tale strumento si sarebbe potuto porre definitivamente fine ad una protesta che, proprio con il suo dilagarsi, ha la potenzialità di logorare la forza della democrazia stessa. 

Afferma Cacciari giustamente, proprio con riferimento alla Val di Susa, che “la democrazia non è un’assemblea permanente”. Il coinvolgimento della popolazione nel processo politico avrebbe aiutato senz’altro a distinguere meglio la protesta civile e le manifestazioni legittime dalle forze violente provenienti da quel gruppo assolutamente minoritario di radical-anarchici e autonomisti, che in parte come black blocs si oppongono al sistema con l’uso della violenza, legittimando qualsiasi forma di escalation. Forse, qualcuno obietterà, in questo momento è troppo tardi per ricorrere allo strumento democratico del referendum. Questa è una valutazione politica. Ma valga pure come ragionamento politico-etico, e quindi in un certo senso come “lezione” da imparare dal caso della Val di Susa, per il futuro.

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