Da qualche tempo una serie di sentenze della magistratura smontano progressivamente l’impianto della legge 40. La storia è nota ed è nella memoria di molti di noi: una delle più grandi mobilitazioni ideali degli ultimi decenni, un momento caldo del confronto tra le culture del Paese, si è conclusa con il successo emblematico del fronte schierato in favore dei paletti posti dalla legge. 



Lo smacco subito ha pesato come un’onta nella cultura di matrice radicale e laicista che fino al referendum del 2005 aveva sempre visto prevalere le proprie posizioni, in maniera paradigmatica nelle consultazioni su divorzio e aborto. Il fatto è che la vittoria del fronte che chiamiamo, con qualche approssimazione, “cattolico”, sembrava aprire una crepa nella presunta inarrestabilità di un processo modernizzante avviato da decenni. Proprio il fatto che l’Italia andasse, o solo sembrasse andare, in controtendenza, diventa una fonte di imbarazzo e di spinta alla rivincita, agli occhi di chi è capace di leggere la storia solo in termini di “progresso” e “conservazione”: termini generici e in sé privi di significato, che però contengono una potentissima valutazione implicita (proprio perché implicita apparentemente indiscutibile e particolarmente efficace).



Anche per questo la magistratura, quella almeno che si sente investita del compito storico di emendare la società, provvede man mano a smontare la legge. Nell’ultimo caso, in ottemperanza alla decisione di un’altra istanza giurisdizionale (la corte europea di Strasburgo), un giudice della prima sezione civile del tribunale di Roma ha disposto la somministrazione della diagnosi preimpianto a coppie fertili.   

Almeno due considerazioni è possibile ricavare dalla vicenda. La prima riguarda precisamente il confronto tra magistratura e legislazione. È ovvio che, specialmente in un Paese come l’Italia e per motivi ben noti, la funzione giurisdizionale ha un ruolo esorbitante. Gli stessi radicali sono in prima linea nel denunciare, spesso con ottimi argomenti, questa superfetazione, dovuta anzitutto alla debolezza della politica; anche se è vero pure, come detto, che una certa volontà di raddrizzare il legno storto e trasformare maieuticamente la società sembra un istinto penetrato ormai in profondità in settori della magistratura. Ma il fatto è che la divisione dei poteri, come è facile osservare leggendo lo stesso Montesquieu, è architettura che serve anche a frenare il potere giudiziario e non solo gli altri due. Ed è proprio per questo che ovviamente il potere di legiferare non è in capo alla magistratura, così come quello dell’applicazione delle leggi non è in capo a chi legifera. Quando una legge viene disapplicata proprio in virtù di sentenze della magistratura, e senza attendere la pronuncia della Corte costituzionale, siamo all’interno di una dimensione controversa e opaca del rapporto tra i poteri.



Il secondo ordine di considerazioni riguarda evidentemente il portato culturale di tali decisioni, la loro visione antropologica per così dire. Si tratta di temi ampiamente sviscerati all’epoca del referendum, ma la loro vigenza è confermata proprio dal succedersi delle sentenze. L’idea della produzione tecnica degli esseri umani possiede una logica stringente che suggerisce l’eliminazione dei soggetti malati. Non è, questa, un’estrapolazione sociologica ma un dato statistico molto chiaro relativo, ad esempio, al numero di nascite di bambini down rispetto ai concepiti (c’è un’interessante eccezione recente in Inghilterra, dovuta, a quanto pare e almeno in parte, alla percezione dei genitori che la vita delle persone con la sindrome sia grandemente migliorata di qualità negli ultimi anni. Si confermerebbe con ciò l’importanza dell’accoglienza e della capacità di accettare, sia a livello familiare che sociale). Inevitabilmente, la possibilità di scartare ciò che non è ottimizzato implica una cultura della selezione di fatto eugenetica, anche se di un’eugenetica individuale anziché di Stato. L’esito curioso è che l’embrione difettoso viene scartato immediatamente, prima dell’impianto, anziché affrontare un’esistenza da malato: dunque l’embrione muore prima, perché scartato, anziché dopo (anche molto dopo), in quanto malato.

Non si vogliono con ciò sottovalutare le difficoltà nell’affrontare la malattia, anzitutto per i familiari, in casi come la fibrosi cistica in questione nella sentenza di Roma (anche se la prognosi e la speranza di vita anche di questa malattia sono enormemente migliorate negli ultimi anni); e soprattutto laddove non vi è un sostegno efficace da parte di uno Stato che lascia sole le famiglie. Ma ciò non impedisce di cogliere, su un piano  generale, i fattori più inquietanti di una logica che tende ad apprezzare solo ciò che sembra essere, almeno sul piano dell’accertamento fisiologico, perfetto.