Ci sono classici della letteratura russa che hanno la fortuna di venire frequentemente ritradotti in lingua italiana (troppo frequentemente a giudizio di F. Dragosei, che ne ha scritto qualche tempo fa sulle pagine del Corriere della Sera). Tra i più amati dalla nostra editoria è sicuramente Dostoevskij: il solo Delitto e castigo conta più di venti versioni, a partire dalla fine dell’Ottocento, quando fu tradotto dal francese; la prima versione integrale dal russo (di A. Polledro) apparve nel 1930; le due ultime nuove traduzioni del celebre romanzo (di E. Guercetti e D. Rebecchini) escono in questi giorni presso Einaudi e Feltrinelli.
Secondo Dragosei, l’editoria italiana oggi predilige i classici perché sono fuori diritti e arricchiscono con poca spesa i cataloghi. È possibile. Restano tuttavia da indagare a fondo i motivi dell’ininterrotta fortuna, sin dagli anni Trenta, di Delitto e castigo rispetto ad altri grandi romanzi dello stesso Dostoevskij – pensiamo a I demoni, L’adolescente, anche all’Idiota… Forse gli editori lo ritengono più facile e soprattutto più commerciabile per gli elementi di romanzo “poliziesco” che ne caratterizzano la trama?
In ogni caso, le traduzioni tendono a invecchiare nel volgere di qualche decennio. E dunque, per la natura stessa di quell’arte minore che è la traduzione, ogni 20-30 anni converrebbe ritradurre i grandi autori del passato, perché possano continuare a essere letti. Esistono, ovviamente, eccezioni a questa regola. Possiamo scommettere che resteranno “classiche”, appunto, per limitarci a qualche esempio dalla letteratura russa, la versione di Rebora di Felicità familiare di Tolstoj, quella di Landolfi della Morte di Ivan Il’ic, e ancora quella di S. Vitale del Dono di Nabokov o, per passare alla poesia, il Lenin di Majakovskij ricreato in italiano da Ripellino…
Nell’attuale panorama editoriale italiano, almeno per quanto riguarda la letteratura russa, il problema davvero urgente non è certo costituito dalle ritraduzioni, quanto piuttosto dalla mancanza di nuove versioni, in particolare dei classici russi del Novecento. Prendiamo il caso, clamoroso, di Solženicyn.
Nel 1963, pochi mesi dopo la pubblicazione dell’originale in lingua russa, Una giornata di Ivan Denisovic apparve contemporaneamente in due traduzioni italiane, curate rispettivamente da R. Uboldi per Einaudi e da G. Kraiski per Garzanti. In seguito – nell’esilio, e dopo il ritorno in patria, nel 1994 – Solženicyn tornò a lavorare al proprio capolavoro breve e ne mise a punto la versione definitiva, non censurata. Di questo non poté tenere conto neppure la terza traduzione del romanzo breve, curata da C. Spano per Newton Compton nel ’93.
Oggi il lettore italiano può conoscere l’opera che segnò il momento più alto del Disgelo, e inaugurò in Unione Sovietica il grande filone della letteratura concentrazionaria, soltanto nella versione di Uboldi, l’unica ancora in commercio.
Questa traduzione appare ormai irrimediabilmente invecchiata, e non per colpa del traduttore: negli anni Sessanta, in Italia, si ignorava tutto, o quasi, del mondo concentrazionario sovietico. Oggi disponiamo di testi storici, letterari, vocabolari del Gulag e dei gerghi della malavita, che consentono di comprendere e rendere con precisione ciò che cinquant’anni fa poteva risultare incomprensibile anche a un traduttore coscienzioso. Ma non si tratta soltanto di un problema filologico – in questo caso, infatti, la filologia non è priva di risvolti ideologici.
Una giornata di Ivan Denisovič apparve in Italia cinque anni dopo l’edizione Einaudi di Se questo è un uomo, che sanzionò il grandissimo successo del libro di Primo Levi. Forse anche per questo, la parola lager, che ricorre 110 volte nell’originale di Solženicyn, non compare mai nella versione italiana. Qui troviamo soltanto il neutrale “campo”, che allontana ogni possibile equazione tra lager tedesco e lager sovietico.