Che cosa serve per accelerare una riforma? La risposta è facile; lo abbiamo capito ancora una volta in questi giorni. Basta una bella e facile tempesta perfetta, una di quelle tipicamente italiche. Il fatto è che, spesso, nel nostro Paese, dopo sommovimenti di questo genere, possono darsi due sole cose, entrambe non del tutto positive: o si approva la riforma in tutta fretta, sull’onda travolgente della marea emotiva che la tempesta ha sollecitato; o ci si dimentica tutto, come se si dovesse attendere un nuovo cataclisma per riaccendere gli animi e sollecitare la concentrazione del legislatore.



La cronaca è nota. Dopo che politici, opinionisti e autorità civili ed ecclesiastiche hanno preparato il terreno con dichiarazioni a dir poco avventate, la sera del 14 ottobre la salma di Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, viene respinta a furor di popolo dal luogo in cui un sacerdote apertamente negazionista avrebbe dovuto celebrare le esequie. Il 15 ottobre il caso del funerale del criminale nazista, già assurto agli onori della questione di ordine pubblico, esplode nuovamente in tutta la sua forza come questione morale. Le testate giornalistiche, cartacee e on line, fanno rimbalzare la notizia sul contenuto del video-testamento lasciato dall’ufficiale delle SS, ove ribadisce la sua verità, vale a dire che non gli sarebbe mai stato possibile sottrarsi ai terribili ordini che gli imponevano di farsi mano attiva dell’eccidio. 



L’indignazione collettiva monta ancor di più, certo non placata dagli interventi di alcuni intellettuali. Tra questi vi è anche chi, sulle pagine di un notissimo quotidiano, rilancia alcune delle più classiche ipotesi negazioniste, accreditando così le convinzioni del defunto. Arriva il 16 ottobre, 70° anniversario del rastrellamento del Ghetto di Roma: il presidente della Repubblica visita la Sinagoga della capitale e invita il Parlamento a chiudere rapidamente l’iter legislativo per l’introduzione del reato di negazionismo. Quello stesso giorno la commissione Giustizia del Senato, sollecitata dal presidente Pietro Grasso, prende in parola il capo dello Stato e tenta l’approvazione del ddl (S. 54) in sede deliberante. Ma l’operazione sfuma per il voto contrario di cinque senatori.



Questa è la cronaca. Tre soli giorni di ordinaria agitazione mediatica sono bastati per farci arrivare alle soglie di un passo certo non indifferente, anzi, quasi storico, la cui praticabilità, però, coinvolge da tempo gli studiosi in un dibattito assai complesso, e i cui esiti non sono privi di insidie. I poli della discussione, infatti, sono ormai noti.

Da un lato vi è un vasto fronte che evidenzia la necessità di punire penalmente tutti coloro che neghino o minimizzino in modo oltraggioso l’esistenza di genocidi, crimini contro l’umanità, crimini di guerra. Specie nei confronti della Shoah, negare significherebbe perpetuare l’offesa indicibile, utilizzare la stessa strategia comunicativa della soluzione finale. Oltre a ciò, la criminalizzazione del negazionismo avrebbe lo scopo simbolico di stimolarci a fare più spesso i conti con il nostro passato, per rimettere, cioè, in moto un processo collettivo di autocoscienza che, in Italia, forse non è mai veramente avvenuto, anche a causa della comune e consolidata contrapposizione tra l’immagine del buon italiano e quella del cattivo alleato tedesco. 

Infine, la scelta punitiva si giustificherebbe anche in ragione delle indicazioni provenienti dall’Unione Europea, che in un’apposita Decisione Quadro (2008/913/GAI) ha invitato tutti gli Stati membri a dotarsi, anche in questa materia, di una disciplina assai severa, nel contesto di un’azione sanzionatoria più ampia e volta a prevenire e a reprimere ogni manifestazione di discriminazione, razzismo e xenofobia.

Dall’altro lato, però, si sottolineano le tante criticità di tali opzioni. In primo luogo, si rileva la potenziale contraddizione con la libertà di manifestazione del pensiero e con la libertà di ricerca, che potrebbe essere sciolta solo laddove il legislatore punisse il negazionismo in quanto accompagnato da atti di vera e propria istigazione alla violenza. In questo senso, nell’area continentale, si sono già  espressi anche alcuni giudici costituzionali. In secondo luogo, si rappresenta che, lungi dallo sminuirne la gravità, la specificità del fenomeno negazionista consiste nell’esistenza di reti e di coalizioni comunicative. In altri termini: colpire il singolo negazionista è operazione che potrebbe rivelarsi del tutto inefficace, se non foriera di espressioni reattive ancor più incontrollabili e virulente. In sostanza, si dice, se un antidoto esiste, questo è dato dalla consapevolezza culturale dell’opinione pubblica, del cui livello di istruzione e di informazione ci si dovrebbe occupare prima di ogni altro profilo.

Prendere posizione non è facile. Non lo è, certo, a fronte di questi rilievi, di un segno o del segno opposto. Sicuramente, poi, è difficile sciogliere un’alternativa così spinosa alimentandosi di sentimenti forti, come se la giusta condanna e la sacrosanta indignazione, per tesi e affermazioni più che tendenziose od oltraggiose, costituissero le uniche fonti di un convincimento per ciò solo ragionevole.

Una cosa, tuttavia, si può dire: che quando si pensa alla soluzione legislativa, occorre farlo con estrema parsimonia, perché ci sono cose che la legge, di per sé, non può risolvere. Stupisce, allora, che proprio il presidente Napolitano abbia sollecitato il ricorso a questo strumento. 

Stupisce perché è stato il capo dello Stato, sia pure in un altro contesto, a proporre da tempo un nuovo e diverso modello di politica pubblica della memoria, chiamando a raccolta al Quirinale, ogni 9 maggio (Giorno della memoria delle vittime del terrorismo), tutti coloro che hanno sofferto e tutti coloro che hanno contribuito a diffondere il ricordo e a discuterne le importanti implicazioni civili. 

Ciò non significa affatto che la memoria della Shoah sia riducibile a questa unica prospettiva. Eppure anche tale direzione è indispensabile, perché ci ammonisce correttamente sulla circostanza che, indipendentemente dalla via che intenderà imboccare il nostro Parlamento, fare giustizia in tribunale o con una legge è condizione necessaria ma mai del tutto sufficiente. 

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