Quale sia la peculiarità della scrittura poetica rispetto alle forme abituali della comunicazione è questione che, da Aristotele in avanti, si è provato a risolvere in vari modi. Ciascuna epoca e ciascuna cultura hanno riformulato il problema, nel tentativo di sondare il segreto di un’esperienza – la lettura di una poesia – apparentemente semplice (o addirittura inutile), che tuttavia ci arricchisce e ci affascina, restituendoci migliori a noi stessi.



Si potrebbe ripetere qui, com’è stato affermato, che la scrittura poetica semantizza, cioè rende portatori di significato, gli elementi normalmente non semantici del linguaggio. Quel che nell’uso quotidiano sembra accessorio e accidentale (le pause, i segni di punteggiatura, gli incontri e scontri tra vocali e consonanti…), viene impiegato come strumento generativo di senso. Elementi altrimenti muti e inerti costituiscono la materia di cui il poeta si avvale, per condensare in poche parole, o poche sillabe, un’intera visione del mondo. 



Mattina di Giuseppe Ungaretti: “M’illumino / d’immenso“. Si tratta di un fulminante settenario spezzato, in cui, con una sinestesia, al lettore è restituito l’effetto d’una conflagrazione che rende l’io capace di accogliere l’infinito. La pausa dell’a capo isola il momento in cui, qui e ora, il soggetto, dissolvendosi, è attraversato da un lampo che l’investe metafisicamente. Il testo è scolpito con una vocazione all’essenzialità, per fermare un attimo “totale”: per comunicare la percezione violenta e immediata della luce da cui, passando dalla notte al giorno, si è invasi e abbracciati. La resa dell’io è espressa, a livello fonosimbolico, mediante lo scioglimento del pronome personale in entrambe le tessere: M’IlluMIno / d’imMEnso. Con eco evidente di Leopardi: “Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio“.



I formalisti russi, al principio del XX secolo, hanno dimostrato che la poesia nasce, in una zona sottratta al lucido controllo della coscienza, dalla tensione dialettica tra la linea ritmica e quella sintattica, tra il piano dei suoni e quello del senso. Anche i bambini sanno che le poesie vanno a capo prima che sia finita la riga: così che il discorso è scandito, al tempo stesso, in segmenti sintattici (motivati dal significato: le frasi) e in segmenti non sintattici (i versi, motivati da un’esigenza musicale). E queste due spinte, l’una di tipo estetico, l’altra di tipo logico, concorrono alla connotazione del “messaggio”.

Si è fatto il nome di Leopardi. Prendiamo il primo verso di Alla luna: “O grazïosa luna, io mi rammento“. Questa manciata di sillabe è stata scritta all’incirca due secoli fa. E se anche non sapessimo niente dell’uomo di Recanati o di come prosegue la lirica, essa ci avvince, come manifesto, in cifra, di una posizione esistenziale complessa. 

Sono evocati i tre elementi fondamentali dell’universo leopardiano: la luna, l’io, la memoria, quale dimensione in cui il passato e il presente si trasformano in giudizio sul futuro. 

La graziosa luna è per Leopardi emblema della bellezza del reale, da cui, tuttavia, il soggetto – come Saffo – può drammaticamente sentirsi escluso, o addirittura respinto. L’aggettivo graziosa è la prima parola della poesia: un attributo che testimonia la qualità migliore del mondo, letteralmente pieno di grazia (cioè di mistero). E questa pienezza si traduce o, meglio, si incarna nella scansione metrica: l’aggettivo (normalmente trisillabo: gra-zio-sa) nell’esecuzione imposta dall’endecasillabo leopardiano diventa quadrisillabo (con la dieresi: gra-zï-o-sa), così restituendo l’impressione di una grazia espansiva, da cui il soggetto e la natura sono pervasi. 

Al centro del verso i pronomi di prima persona, io e mi, sono balbettii monosillabici, di chi, al cospetto di simile miracolo, avverte la propria infantile finitezza. E dopo sette sillabe (O-gra-zï-o-sa-lu-na) la virgola cade come un colpo, rappresentando, visivamente, la cesura o frontiera che Leopardi vede tra sé e quella grazia. La pausa, dopo il vocativo, comprende il sospiro di chi, amando (diletta luna) non si sente tuttavia riamato o corrisposto, e sente quindi l’esistenza come travaglio. La linea sintattica del discorso, e la punteggiatura che ne consegue, obbligano a passare, repentinamente, dalla gioia all’amarezza. 

Ma lo scacco non ha l’ultima parola. Ad esso si contrappone infatti la linea musicale, che, mediante un artificio noto scolasticamente con il nome di sineresi, fonde insieme la sillaba finale (atona) di luna e il pronome io. La sineresi è qui lo strumento di cui il cuore leopardiano si avvale, con un imprevedibile guizzo, per certificare al lettore che, al di là di questa come di tutte le virgole, introdotte dalla logica delle ideologie, l’io e la luna partecipano di un medesimo destino, di grazia.