E ad un tratto il ricordo mi è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di ‘maddalena’ che la domenica mattina a Combray, quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio“.

Comincia così il “viaggio” dello scrittore più affascinante del secolo scorso, che cento anni fa dava alle stampe a sue spese Du coté de chez Swann, inizio della Recherche du temps perdu.



Non era la forma (sia pure quella “grassamente sensuale sotto la sua veste a pieghe severa e devota”) della focaccia pienotta e corta chiamata “maddalenina”, simile a tante altre mangiate durante l’infanzia, che aveva scatenato “quella forza d’espansione capace di raggiungere la coscienza“, come Proust stesso spiega, ma un semplice odore, un sapore riuscito a portare “sopra la rovina di tutto il resto con stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo“.



Piace pensare che nel personaggio dalla salute cagionevole, quale fu Proust, si sia condensato l’eroico sforzo di riscatto dalla schiavitù del limite imposto dal dato reale tanto ostinatamente sbandierato lungo il finire del secolo XIX. Secolo che – figlio di un positivismo impietoso – sarebbe andato a frantumarsi nei mille rivoli simbolistici e irrazionalistici del nuovo secolo, il Novecento.

Proust  sceglie l’antieroismo finemente satirico di chi avendo perso una vera certezza di ciò che è, accetta di farsi svelare la verità – se verità esiste – da qualcosa legato al sapore di un tè, che, però, “lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura“.



Il piacere “delizioso” che, sorseggiando il tè con la “maddalenina” l’aveva invaso “colmandolo di un’essenza preziosa, facendolo cessare di sentirsi mediocre, contingente, mortale, non manifestava certo una verità intrinseca nel dato in quanto tale, ma in lui“. È così che il Cercatore di tempo perduto, comincia a sottoporre se stesso a quel lavoro per nulla ovvio o spontaneistico di riappropriazione di sé, di quel sé profondo che probabilmente non ha potuto che realizzarsi tanto tempo prima, nella relazione esclusiva con la madre: “con l’amore materno, la vita vi fa una promessa che essa non mantiene mai. Dopo si è obbligati a mangiar freddo fino alla fine dei nostri giorni“, riassumerà  al proposito Romain Gary.

Ma intanto ecco che il tempo cessa di essere la cristallizzazione espropriante di attimi senza nesso uno con l’altro e – da questo “antico che si avvera” nel prenderne coscienza – può anche prospettarsi un “nuovo” esile filo di speranza. Il linguaggio e lo sfondo mentale ed affettivo della Recherche sono tutt’uno con la sua epoca traversata e ferita dal bisogno di liberazione dal puro dato reale, limitato, angusto, sconfinato nel mero naturalismo. 

Era già dilagato il simbolismo, e, a conclusione della parabola decadentista, ecco l’inconscio (Freud 1901, L’interpretazione dei sogni), e lo slancio vitale (Bergson 1907, L’evoluzione creatrice).

Il bisogno di conoscere non solo la realtà, ma l’anima della realtà aveva portato in sé l’attribuzione di nuovi fini e nuovi mezzi all’arte letteraria, come pure di nuovi mezzi espressivi. Con la Recherche Proust attua tutto questo grazie ad una narrazione priva di ordine cronologico logico, ma con continui trapassi dal presente al passato, da un episodio all’altro, da un ricordo all’altro. Come notava Fortini, questi passaggi o transizioni “creano sospensioni, ritardi, effetti d’eco“, mezzi grazie ai quali Proust riesce a passare da uno straordinario realismo e mimetismo a pagine di lirica esaltazione o di astratto ragionamento.

Ma il punto di raccordo di tutto questo dibattersi e tentare di liberarsi dalla noia e grevità del dato che la vita stessa rappresenta, è sempre nella dimensione del ricordo come conferma che noi non ci facciamo da noi stessi, qui, ora, con la nostra esclusiva volontà. Siamo quello che altri prima di noi hanno detto di noi e a noi.

Memorabile come l’autore della Recherche descrive il suo rapporto con l’amata Albertine. L’ansia di possedere la donna amata travalica nel sottile smarrimento di riconoscere che essa non coincide con il presente che lui, sia pure col suo amore, creava per lei.

Egli si trova “straziato” a constatare che la bellezza di essa era tutt’uno col “fatto che lei si sviluppava su molti piani diversi e racchiudeva in sé molti giorni ormai trascorsi. Allora sotto quel viso che arrossiva, sentivo spalancarsi come un abisso l’inesauribile spazio delle sere in cui non avevo conosciuto Albertine. Avevo un bel prenderla sulle ginocchia, tenere il suo capo tra le mie mani, accarezzarla, passare a lungo le mie mani su di lei: come se avessi maneggiato una pietra racchiudente in sé la moia di oceani immemorabili o il raggio di una stella, sentivo che sfioravo solamente il chiuso involucro di un essere, il quale, per la sua vita interiore, accedeva all’infinito“.

 Il 1913 è anche l’anno della pubblicazione su “La Voce” dei Frammenti lirici di Clemente Rebora. Ricordarlo ci fa gettare lo sguardo dall’altra parte delle Alpi e ritrovare un “compagno” di stupore davanti all’inafferrabilità del reale, un altro a cui il riduttivismo positivistico di un’intera epoca aveva preteso di spiegare ogni cosa:

… e ritorno, uguale ritorno
dell’indifferente vita,
mentr’echeggia la via
consueti fragori e nelle corti
s’amplian faccende in conosciute voci,
e bello intorno il mondo, par dileggio
all’inarrivabile gloria
al piacer che non so…