Caro direttore,
Possiamo lasciare ancora a lungo senza risposta il pressante invito di Benedetto XVI affinché i molteplici luoghi in cui si produce la politica contemporanea vedano affacciarsi ed essere significativa ‘una nuova generazione di cattolici impegnati in politica’, ossia di politici (…) che siano coerenti con la fede professata, che abbiano rigore morale, capacità di giudizio culturale, competenza professionale e passione di servizio per il bene comune?“.



Così si apriva l’editoriale del numero quattro del 2010 di Vita e Pensiero, la rivista culturale dell’Università Cattolica allora diretta dal rettore Lorenzo Ornaghi, al quale non è difficile attribuirne la redazione. Anche perché Ornaghi è intervenuto successivamente più volte sullo stesso tema sia sulla rivista che, recentemente, tenendo una Lectio magistralis in occasione della laurea honoris causa ottenuta dall’Università di Cracovia (parzialmente pubblicata su Avvenire del 10 ottobre scorso).



Ornaghi ritiene fondamentale che i cattolici tornino a svolgere un ruolo sulla scena politica italiana e ancor di più su quella europea, “che è sempre più determinante nel decidere politiche pubbliche, orientamenti di valori, principi e regole di pressoché ogni rapporto sociale”. È una preoccupazione realistica o il professore, che ha sperimentato direttamente il “costo” dell’impegno politico-istituzionale, è un laudator temporis acti, un nostalgico di tempi e modi della politica inevitabilmente superati?

Se è tutto da decifrare il “come” di questo impegno io non ho dubbi sul fatto che tale presenza sia non solo esigita da una fede matura (“una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta” disse Giovanni Paolo II al Meic) ma anche ciò di cui ha bisogno la stessa nostra società contemporanea. Per dirlo con la bellissima ma anche provocante citazione di Eliot riportata dalla Lumen Fidei, “avete forse bisogno che vi si dica che perfino quei modesti successi/ che vi permettono di essere fieri di una società educata/ difficilmente sopravviveranno alla fede a cui devono il loro significato?“.



Una prima osservazione. Oggi nei consigli elettivi, dal parlamento ai singoli comuni passando per le assemblee regionali, sono presenti cattolici eletti in schieramenti diversi. Al di là di singole simpatie  personali, possiamo raccontare di esperienze in cui sia esplicita e riconosciuta una medesima appartenenza ecclesiale? Possiamo narrare di cattolici diversi, ma anche del medesimo schieramento, in cui sia documentabile una fraternità reale al di là delle opinioni e posizioni?

Questo è a mio parere il punto cruciale, ma anche il più duro perché implica una conversione del cuore e una testimonianza personale fino al martirio. Non a caso Benedetto XVI ha segnalato come modello per i politici non solo il loro patrono Thomas More, ma anche la giovane Giovanna d’Arco. E i nostri giorni hanno conosciuto la straordinaria testimonianza di fede del ministro pachistano cattolico Shahbaz Bhatti. Dello stesso Schuman è in corso il processo di beatificazione. La testimonianza personale resta lo strumento principale di ogni intrapresa politica. 

Se poi vogliamo addentrarci nella concretezza delle diverse questioni non possiamo dimenticare che una bussola ce l’abbiamo, la dottrina sociale della Chiesa e il magistero e, come lo scriba del Vangelo, dal grande tesoro costituito dall’insegnamento della Chiesa e dalla testimonianza dei cristiani anche noi possiamo trarre “cose nuove e cose antiche”.

Per cogliere tutta la portata di questo tesoro vale la pena tornare a una recente rivisitazione fatta da Ornaghi di quel significativo documento del primissimo dopoguerra che va sotto il nome di “Codice di Camaldoli” (cfr. Un passato sempre vivo. La lezione di Camaldoli, Vita&Pensiero, 4/2013) ma che nel titolo originale recita Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale. Un testo molto citato nei tempi migliori della Democrazia cristiana anche se non so quanto veramente letto ma soprattutto condiviso nella sua origine profonda.

E’ il tentativo di menti e cuori di (soprattutto giovani) cattolici di portare un contributo di idee alla costruzione della nuova Italia del dopoguerra. Scorrendo rapidamente i titoli dei capitoli si nota la loro attualità: lo Stato (la cui riforma è sul tavolo delle larghe intese), la famiglia e l’educazione (nervi scoperti di ogni politica nel nostro paese), il lavoro e l’economia, la politica internazionale (e sull’Europa che si va costruendo è drammaticamente urgente una visione meno tecnocratica e più rispettosa delle identità dei popoli). Molte delle riflessioni contenute in quel testo poterono fornire la base programmatica del nascente partito dei cattolici, dimostrandone la concretezza.

Un terzo ordine di problemi che tocca il tema della presenza di cattolici in politica riguarda il confronto con altre visioni del mondo e conseguentemente con le diverse posizioni politiche. Su questo l’insegnamento dottrinale di Benedetto XVI e il suo tenace confrontarsi con ogni posizione diversa (famoso è rimasto, da cardinale, l’incontro con Habermas), le grandi lezioni tenute a Parigi, Berlino, Londra e Praga costituiscono una ricchezza da cui imparare. Sulla stessa lunghezza d’onda diversi interventi del cardinale Scola che ha ultimamente colto l’occasione della ricorrenza dell’editto di Costantino per rilanciare il tema della libertà religiosa e delle sue implicazioni nelle società occidentali con il richiamo a quella che è stata definita una “sana laicità”.

Il tempo che viviamo mi sembra caratterizzato dal ritenere che sia il diritto positivo (o il voto di una maggioranza) il punto discriminante dell’azione politico-istituzionale, con la rivendicazione di una laicità dello Stato che contiene “una latente diffidenza verso il fenomeno religioso” che finisce per generare “un clima non favorevole a una autentica libertà religiosa“, mentre “una fede integralmente vissuta ha un’irrinunciabile rilevanza antropologica, sociale e cosmologica, carica di conseguenze politiche assai concrete” (Angelo Scola, Non dimentichiamoci di Dio. Libertà di fedi, di culture e politica, Rizzoli 2013). 

Testimonianza personale, riferimento all’insegnamento della Chiesa, confronto con le diverse mondovisioni a partire da un’identità certa. E’ il contributo che dei cattolici possono portare alla politica che, non dimentichiamolo, è strumento per creare le condizioni di una vita buona tra persone chiamate a vivere fianco a fianco nella polis plurale. E credo che questo contributo sia atteso da questo momento politico-istituzionale così complicato.

Questo tema, che sembrava fino a pochi anni fa del tutto desueto torna a farsi prepotentemente presente sia a fronte di non poche direttive europee (che cercano di influenzare le diverse culture nazionali, ad esempio in tema di difesa della vita, di rapporti familiari…) ed anche dentro diverse legislazioni nazionali con la Francia, in questo momento, come potente capofila di una laicité che rifiuta il religioso nello spazio pubblico. Ma anche da noi dovrebbe far pensare una affermazione di Flores D’Arcais (Corriere della Sera del 7 ottobre scorso) per cui il credente “è civicamente minus habens perché incapace di interiorizzare autonomamente la scelta pro-democrazia e in grado di riconoscerla solo affidandosi” all’autorità religiosa di riferimento. Affermazioni da non sottovalutare relegandole tra le fantasie intellettuali, perché sono invece piuttosto diffuse tra i politici attuali anche per la insufficiente presenza di testimonianze differenti.