Ci sono dei libri molto belli ma non rinomati – o anche solo contraddistinti da un titolo e da una copertina poco accattivanti – che vorresti fossero letti da quanta più gente possibile; però sai bene non andrà così. Innanzitutto per via della pletora di pubblicazioni che non consente ai lettori di orientarsi fra i troppi volumi e volumetti in mostra, a rotazione rapidissima, nelle vetrine o sugli scaffali delle librerie. Se poi il testo in questione non è un bestseller o un thriller, non è stato dato alle stampe da una grande casa editrice e magari – essendo stato scritto da un autore poco noto – ha ricevuto scarsa attenzione dai media, puoi star sicuro che non finirà mai nella classifica dei primi dieci libri venduti a livello nazionale.
Mentre io vorrei proprio che l’appassionato resoconto-testimonianza di Attilio Stajano: L’amore, sempre. Il senso della vita nel racconto dei malati terminali (Lindau, 2013) avesse la fortuna/diffusione che merita. Certo, un libro come questo ha pagine amare, crude e tratta di una tematica di cui non vorremmo occuparci. La morte infatti – anche quella di estranei – è quasi sempre argomento spinoso, sgradito ai più, inquietante; specie se essa non ha nulla a che fare con l’efferatezza morbosa e seduttiva che ogni giorno ci propone a piene mani la cronaca nera. Specie se non appare remota come quella filmata dai reportage di guerra, che ci mostrano immagini luttuose sì, ma riferibili a esseri umani e luoghi lontanissimi dalla nostra quotidianità e quindi emotivamente irrilevanti. Mentre è tutt’altra cosa doversi misurare a tu per tu con la sofferenza ordinaria e per nulla spettacolare di chi è colpito da una malattia inguaribile.
D’altronde Stajano senza tante perifrasi scrive a chiare lettere qual sia l’opinione e la sensazione comune intorno ai malati terminali, che purtroppo finiscono con l’apparire: “ingombranti, fastidiosi, difficili e inutili”. Se poi la legge del Paese in cui essi abitano consente l’eutanasia (come accade in Belgio, dove l’autore opera quale volontario in un hospice di Bruxelles), può farsi strada l’idea di farla finita il prima possibile con una patologia che la medicina non può debellare. Ed ecco concretizzarsi il progetto di metter fine a un’esistenza fortemente compromessa e invalida tramite la cosiddetta “buona morte”; giacché ciò significa appunto il termine eutanasia: derivato della parole greche eu (bene) e thanathos (morte). Ma, sottolinea Stajano, spesso una tale drastica istanza risolutiva “sembra rispondere più alle esigenze della famiglia, dei sanitari e della società che ai bisogni del malato”.
Ciò non toglie che molte volte sia proprio quest’ultimo a insistere per ottenerla; eppure “la richiesta di eutanasia” – secondo l’annosa esperienza dell’autore – “sorge nella maggior parte dei casi dalla paura del dolore e della solitudine e dalla perdita di status”. Una simile opzione estrema può comunque venire abbandonata “quando, escluso ogni accanimento terapeutico e soppresso o attenuato il dolore fisico, gli ultimi giorni sono riportati in quello spazio di dignità, relazioni, amicizie e amore che ha dato senso alla vita”. E allora, per stare accanto in modo proficuo a un morente bisogna dapprima accettare la nostra fondamentale vulnerabilità e impotenza. Solo così è possibile esaudire quello che è forse il desiderio più urgente dei malati terminali, consentendo loro di esprimere senza vergogna timori, crucci, sentimenti e in primo luogo la necessità di essere riconosciuti quali persone bisognose d’una relazione affettuosa e di una cura non più rivolta a guarire bensì orientata a una sollecitudine fatta di benevolenza e ascolto.
Ma il libro di Stajano non è solo una riflessione su come vivere il periodo che precede la morte, non è appena il resoconto esemplare di varie modalità individuali d’approccio al momento conclusivo dell’esistenza. L’amore, sempre è prosa che trasuda poesia, è narrazione all’insegna di un’emozione (quella suscitata dallo stare accanto a chi soffre) che va al di là delle parole e si fa prassi empatica, si traduce cioè in vicinanza calorosa, divenendo rapporto non superficiale ma di profonda, pietosissima umanità. Stare accanto ai morenti, infine, significa pure farci consapevoli della sostanziale provvisorietà che ci contraddistingue e che al contempo rende prezioso ogni istante vissuto appieno, con consapevolezza ed autenticità. Perciò “I malati in fine di vita ci offrono, talvolta loro malgrado, un esempio e un modello: il progressivo distacco da quello che nella loro vita era al centro delle loro attività e preoccupazioni. Si liberano gradualmente da tutti i condizionamenti che, nella frenesia dell’agire, hanno ingombrato la loro esistenza e ci aiutano a scoprire che alla fine restano vitali e indelebili solo le esperienze e le manifestazioni dell’amore”.
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Attilio Stajano, “L’amore, sempre. Il senso della vita nel racconto dei malati terminali”, Lindau, 2013. (Francesco Roat è volontario della Lilt – Lega italiana per la lotta contro i tumori – e dell’Hospice di Trento)