A quanto pare Veltroni ha fatto scuola: il “ma-anchismo” domina, non dico incontrastato, ma certo con un vigore non minore rispetto ai tempi passati. A chi/cosa mi riferisco? Ma al direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera, che si produce in un esempio di “ma-anchismo” di scuola. Di fronte agli ultimi dati comunicati dal MEF, secondo i quali, a fronte di un crollo, del tutto prevedibile, dell’Iva, nei primi otto mesi del 2013 – si parla di un -5,2%, cioè di -3.724 milioni di euro, tanto per gradire -, abbiamo un gettito fiscale stabile. Naturalmente, sottolinea con zelo bismarckiano Befera, “se non ci fosse Equitalia”, in Italia le tasse “non le pagherebbe nessuno” (la sobrietà dei dirigenti pubblici è ben nota…); nel contempo, il Nostro annota, stavolta come appartenente alla scuola di Lapalisse: “Con meno tasse ci sarebbe meno evasione. Ci sarebbe meno evasione per carenze di liquidità”.



Con ciò, Befera – al quale, chissà perché, gli intrepidi “colleghi” pongono domande come uscite fuori dal cilindro del Mago di Oz, alla “n’do cojo cojo”, senza verificare la cogenza logica delle risposte del medesimo – afferma, secondo un elementare criterio logico: a) le tasse sono troppe; b) gli italiani non hanno più soldi; c) Equitalia è un mostro poliziesco-fiscale pronto a vampirizzare i cittadini, vedi sopra, sprovvisti di liquidità e, di conseguenza, impossibilitati ad adempiere alle onerose incombenze del fisco rapace. In soldoni: Befera contro se stesso. Ma nessuno coglie la sottile sfumatura, a quanto pare.



Befera, al quale non manca né lo zelo, né la sistematicità argomentativa (pro domo sua), insiste: “Mi pare che qualcosa l’abbiamo recuperato, è stata abbattuta la forbice tra il reddito percepito e il reddito dichiarato. Ma l’evasione fa ancora parte della cultura italiana, bisogna cambiarla. Evadere non è furbizia, bisogna insegnarlo alle nuove generazioni. Siamo un Belpaese di evasori, speriamo di cambiare”.

Ora qualcuno – magari, tanto per cambiare, qualche intervistatore ad uopo – dovrebbe ricordare al solerte direttore dell’Agenzia delle entrate che i mutamenti dall’alto della “cultura” di un popolo (ammesso e non concesso che siffatta “cultura” non sia, di fatto, quella legittima difesa che, in qualche modo, lumeggia perfino Befera quando sostiene che, con meno tasse, ci sarebbe anche meno evasione) fa parte di un bagaglio ideologico non propriamente liberaldemocratico e che l’economista e filosofo Friedrich von Hayek, Premio Nobel, definiva “costruttivismo”. Una brutta tara ideologica e per certi versi anche spirituale, che spinge a considerare gli uomini meri ingranaggi della Grande Macchina Stato, a quest’ultima asserviti e degni di legittimazione morale soltanto se pronti a fare tutto ciò che il Leviatano disponga, dal primo vagito all’ultimo conato di vita.



Ecco il vero punto della questione tasse: non si tratta mai di un fattore econometrico e di finanza pubblica, trattasi sempre di libertà, come fatto e perfino come filosofia. Se consideri gli uomini liberi davanti allo Stato, fai di tutto perché possano pagare tasse giuste e con il massimo agio possibile; se, invece, per te conta soltanto il volere del Leviatano, allora è ovvio che tu debba fare di tutto per “cambiare la cultura” dei “malfattori” ed “evasori” in re ipsa e, di fatto, fare un bel passo in avanti verso il grande sogno comunista e gramsciano della costruzione dell’ “uomo nuovo”.

È chiaro, infine, perché il comunismo, come ideologia, possa permettersi di estinguersi: si è fatto Stato a tal punto da diventare lo stato delle cose. Dai “Quaderni del carcere” alle “Note dell’Agenzia”. Delle Entrate, naturalmente.