Scriveva Cesare Pavese, nel suo romanzo La luna e i falò, che “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andare via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Erano gli anni del secondo dopoguerra, in una cultura divenuta allergica alla parola “patria” per l’abuso che ne era stato fatto dal fascismo. Succede quando si abusa di certe parole. “Un paese ci vuole” è un’affermazione sconvolgente sulla penna di un grande scrittore che aveva, invano, cercato nell’internazionalismo comunista una risposta alle grandi questioni che lo attanagliavano e stava, finalmente, riscoprendo la necessità, anzi, l’urgenza antropologica di radici da cui ripartire. 



Pavese evita la parola “patria”, perché era diventata, in Italia, un’astrazione, un progetto da compasso e grembiulino, ma quel che intendeva era ciò che la “patria” dovrebbe essere: il luogo dove ti senti a casa, la terra che onora i tuoi morti, l’acqua dei rivi in cui ti sei bagnato, il profilo lontano delle colline e dei monti, il cielo sotto cui ricordi la tua infanzia…  E, forse, “paese” corrispondeva, in quel momento, molto meglio a questa percezione, con la sua assonanza quasi contadina, popolare, bassa, così lontana dai nazionalismi astratti della retorica risorgimentale e fascista. In fondo, così scrivendo, Pavese rivendicava, dentro un’esperienza, il “giusto mezzo” tra due astrattezze, apparentemente opposte tra loro, ma ugualmente lontane da una realistica concezione dell’esistenza umana: il mondialismo e il nazionalismo. 



Non era e non è una questione nuova. Da almeno duecento anni, in maniera evidente, l’Europa e il mondo sono tormentate dalla mancanza di equilibrio tra queste due opposte tentazioni. Le baionette napoleoniche avevano esportato la Rivoluzione e i suoi ideali di fratellanza universale come maschera di un primo e subdolo nazionalismo. Gli ideali di fratellanza universale e di cosmopolitismo fornirono copertura ideologica a massacri e violenze sino ad allora sconosciuti. Dalla Vandea ai Gulag siberiani, la storia successiva ha tragicamente mostrato quanto perversa fosse questa strategia. 



La Chiesa cattolica si mostrò subito diffidente tanto rispetto al nazionalismo integrale che alle varie forme di internazionalismo. Le prime condanne risalgono proprio ai papi dell’età napoleonica e della Restaurazione. Quel che è avvenuto da allora ha confermato, in maniera drammatica, che tali condanne erano solidamente motivate: il nazionalismo integrale relativizza la persona al tutto e identifica il tutto in un elemento, per sua natura parziale, come è appunto la Nazione. In più, e non è un elemento marginale, c’era il fatto, allora evidente a pochi, che molti dei nazionalismi ottocenteschi erano prodotti artificiali, frutto più di un sistema ideologico che della complessa maturazione di processi storici reali e vitali. 

Dalle condanne dei primi pontefici dell’Età della Restaurazione, passando per il grido di dolore di papa Benedetto XV contro “l’inutile strage” che stava devastando l’Europa con la Grande Guerra, e sino alla resistenza di Pio XI e Pio XII contro il nazionalsocialismo (come forma più esasperata e radicale del nazionalismo integrale) il magistero solenne della Chiesa si è espresso con chiarezza inequivocabile nei confronti di questo rovesciamento di valori e di prospettive. Alla condanna del nazionalismo si accompagnava, allora, quasi sempre, anche quella dell’internazionalismo comunista. Il nazionalismo e l’internazionalismo hanno, poi, vissuto metamorfosi importanti, che non ne hanno peraltro mutato l’essenza. 

Proprio perché “di un paese c’è bisogno”,  perché l’Uomo è un’astrazione se si prescinde dal fatto che, in quanto persona, si colloca sempre in un “qui ed ora”, anche in questo caso bisogna stare attenti a non buttare via il bambino con l’acqua sporca, confondendo l’amor patrio con il nazionalismo integrale. Ciò è particolarmente vero soprattutto in tempi, come i nostri, in cui una parte della cultura cattolica corre il rischio di confondere l’universalità (l’apertura al mondo) con il mondialismo (la cancellazione della stessa nozione di appartenenza e identità patria). 

Dopo gli anni delle condanne “in negativo”, il Concilio Vaticano II, con la Gaudium et Spes, ha dapprima posto le premesse per chiarire, in termini finalmente positivi, questa fondamentale distinzione, ma è soprattutto a papa Giovanni Paolo II che si deve una riflessione profonda e coerente su questi temi essenziali. Ce lo ricorda il bel libro di padre Aldino Cazzago, Giovanni Paolo II. “Ama gli altri popoli come il tuo!” (Jaca Book, Milano, 2013) che in tre capitoli, ben articolati, ripercorre le premesse storiche e culturali, l’idea di nazione e il “sogno” di un’Europa dei popoli che ha caratterizzato tutto il pontificato e il magistero di questo grande papa. 

Il primo capitolo del volume ripercorre, quindi, con sistematicità e ricchezza documentaria i dati storici e le esperienze biografiche che sono sottese alla nozione di “patria” caratteristica di Giovanni Paolo II. È quasi superfluo, in questa sede, ricordare che si tratta di una storia di legami e di relazioni, che costituisce l’humus essenziale dell’esperienza di fede del giovane Karol Wojtyla e che resta il suo punto di riferimento fondamentale. 

Ben oltre i suoi stessi fondamenti antropologici (“il paese” di cui si ha bisogno), l’idea di patria ha qui a che fare con la logica dell’Incarnazione: si tratta di un’esperienza che non può prescindere da questa particolare figliolanza, dall'”essere figli di una terra” e, allo stesso tempo, con una percezione della Chiesa come comunione viva, non semplicemente come istituzione giuridica. 

“La Chiesa sulla terra tende continuamente alle dimensioni di questa famiglia nel mistero della comunione dei Santi. Imponendo il nome al proprio figlio, i genitori vogliono introdurlo nella continuità di questo mistero. I miei carissimi genitori mi hanno dato il nome di Karol (Carlo), che era anche il nome di mio padre”. 

La patria è una storia di legami e di radici, di cui si ha bisogno per potersi proiettare verso il mondo. Questa rete di relazioni viene prima delle forme statuali e può e deve giudicarne lo spessore etico: “La nazione vive autenticamente la propria vita solo quando sperimenta la propria soggettività in tutta la vita dello Stato. Quando constata di essere padrona in casa propria, constata di partecipare alle decisioni mediante il suo lavoro, il suo contributo”. Sono parole riprese dal primo viaggio di Giovanni Paolo II nella sua Polonia che riaffermano il primato dell’uomo sull’istituzione. La patria viene prima dello Stato e quest’ultimo deve essere giudicato sulla base della sua capacità di servire l’idea di patria e i valori fondamentali che la costituiscono.

Nel secondo capitolo (“Anche le nazioni abitano”) l’esperienza e l’idea di patria trovano il loro quasi naturale sviluppo nell’idea di nazione, quella, in fondo, più scomoda e più rischiosa, posta, così come è avvenuto storicamente, tra la Scilli del nazionalismo integrale e la Cariddi del mondialismo anonimo, quello che, oggi, chiameremmo della globalizzazione più radicale. L’Autore ne riprende la definizione dal celeberrimo discorso di Giovanni Paolo II alle Nazioni Unite: “La nazione è in effetti la grande comunità degli uomini che sono uniti da diversi legami, ma soprattutto dalla cultura”. Ancorando l’idea di nazione a quella di comunità e ai legami che la costituiscono, primo tra tutti la cultura, si evita ogni possibile equivoco con il nazionalismo integrale e con la sua pretesa di costruire nazioni e stati “a tavolino”, sulla base di progetti ideologici e di interessi occulti. 

La nazione è soprattutto un mondo di legami reali ed è, dunque, la traduzione culturale del concetto di patria. Il primo diritto di una nazione è di essere riconosciuta come tale, “il diritto all’esistenza”, che “implica naturalmente, per ogni nazione, anche il diritto alla propria lingua e cultura”. La storia, come sottolinea l’autore, “purtroppo si è spesso mossa in direzione opposta: l’annientamento delle nazioni è andato di pari passo con l’uccisione di migliaia di persone e con il genocidio delle minoranze”. Per questo, chi ha il senso della propria patria, non solo non teme quella altrui, ma la ama come la propria. 

Emerge, così, il “sogno” di una nuova Europa, cui è dedicata la terza parte del volume, “un’Europa senza nazionalismi egoistici, nella quale le nazioni vengono viste come centri vivi di una ricchezza che merita di essere protetta e promossa a vantaggio di tutti” (Giovanni Paolo II, Ai membri del Direttivo del Premio Carlo Magno). 

Di fronte a questa Europa, Giovanni Paolo II, con il suo richiamo alla necessità dei legami e della comunità sociale e, più specificamente, al tema delle radici, può forse sembrare uno sconfitto, se ci si ferma alle decisioni dei “vertici”, cioè dell’apparato “super-statale” europeo. Ma Giovanni Paolo II non ha mai voluto fermarsi alla semplice lamentela nei confronti di questo apparato − così simile, nella sua astrattezza ideologica, a quello che per decenni aveva cercato di annientare la sua patria −  preferendo riaffermare, con le parole e con l’azione, l’ordine naturale delle cose: i legami, le radici, la storia, che vengono prima delle forme statuali e giudicano queste ultime. Giovanni Paolo II ha aperto una sfida che, come ricorda nella conclusione l’autore, è oggi più che mai aperta e coinvolge e interpella ciascuno di noi.