Ci voleva un libro così: agile, ficcante ed essenziale per mappare gli scrittori “sotterranei” nel ‘900. Con I sommersi e i dannati, pubblicato dalle raffinate edizioni Otto/Novecento, Filippo Maria Battaglia (nato a Palermo nell’84 è autore, tra gli altri, di Professione reporter. Il giornalismo d’inchiesta nell’Italia del dopoguerra) ci prende per mano per valicare “il fumo delle parole” che ha spesso attanagliato la nostra critica letteraria e riporta l’attenzione su alcuni Maestri ostracizzati. Per sfatare il mito che l’Autore debba proporsi ai lettori solo con una lingua “increspata, ribelle e illeggibile…” come purtroppo predicava Gianfranco Contini, che vedeva nel monolinguismo e nello stile cristallino una sorta di peste. 



“La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace” scriveva Primo Levi nel suo ultimo libro (1986) dal titolo speculare e opposto (I sommersi e i salvati) a quello di Battaglia. Per questo il giovane giornalista di SkyTg24.it si è messo sulle tracce delle anime con una “parola chiara e diretta” e avverse “al gioco linguistico irrisolto”. Il volume è un ottimo Tom Tom per le nostre intricate selve letterarie. I 20 cammei seguono uno schema preciso: una brevissima (ma indispensabile) biografia, un sunto delle opere e, soprattutto, la spiegazione della loro attualità. Perché Papini, la Morante o Ripellino insegnano ancora oggi, sono i “contemporanei del futuro”, secondo la definizione di Classico di Giuseppe Pontiggia. 



Per avere un’idea del timbro felicemente aggressivo del libro è sufficiente analizzare la scheda dedicata a Federigo Tozzi. L’autore di Con gli occhi chiusi (1919), Il podere (1921), Tre croci (1920) morì a Roma il 21 marzo 1920. Poi scese il buio critico. Ecco il deciso parere di Battaglia: “Il timido successo riscosso con le ultime opere lascerà spazio, specie nel secondo dopoguerra, a una indefinita nebulosa, perlopiù costellata da infiniti pregiudizi: la sua produzione sarà definita tardoverista, provinciale, ossessionata dal determinismo narrativo, perfino schematica e incerta tra il misticismo e il prefreudismo. Decine di stereotipi che porteranno a dimenticare del tutto le novelle e il teatro […]. Da allora aspetta di essere letto. E più che diventare un classico, è rimasto il più talentuoso convitato di pietra della letteratura italiana del Novecento” (p. 16). 



Provocatorio e altrettanto interessante il parere su Grazia Deledda (1871-1936): “I protagonisti dei suoi libri sono presentati quasi sempre quali discendenti di una antica stirpe pastorale: rudi, primitivi, quasi primordiali, hanno qualcosa di archetipo e insieme rarefatto che li rende assai distanti dalle statuine descritte da certi epigoni del naturalismo”. E ancora: “Nei romanzi della Deledda, tutti i personaggi restano preda dell’ineluttabilità del male… nella sua narrazione non c’è colpa né peccato, semmai trova spazio il castigo…”. 

Come a dire: abbiamo avuto in casa una donna che scriveva con la violenza e l’ispirazione di McCarthy e ce ne siamo dimenticati, nonostante il Nobel del 1926… Era più attenta la critica coeva. Ecco, per esempio, cosa scriveva Emilio Cecchi sui personaggi della Deledda: “Un ineffabile tormento, una sorta di morbo sacro li isola, li consuma, li fa errare in pensieri malfermi, in azioni contraddittorie. Nel loro stato civile di gente di campagna, o passata alla piccola borghesia urbana, si covano in petto una psicologia alonare, tentacolare, benché siano capaci di discriminazioni sottilissime” (p. 19).

Filippo Battaglia è stato particolarmente abile nell’introdurci al “cantiere interno” e agli “umori” degli scrittori. Per esempio, nel capitolo “Longanesi: se la genialità muore dannata” ci troviamo di fronte a un uomo che scrisse pochissimi libri, ma che era dotato di un infallibile fiuto da talent scout. Battaglia ha recuperato il perché di questa “ipotrofia” narrativa: “Se vuoi raccontare qualcosa di organico, devi piegarti ogni tanto al banale. Perfino Tolstoj deve dire a un certo punto che Anna Karenina si alzò e andò ad appoggiarsi la fronte ai vetri della finestra. Ecco, io non sarò mai capace di seguire un’Anna Karenina in un movimento così ovvio e usuale. Che me ne frega, a me, che quella brava signora vada alla finestra? Anche la mia serva ogni tanto ci va. Eppoi dimentica di lavare i vetri. Eppure, se vuoi scrivere un romanzo, devi rassegnarti a seguirne i personaggi anche in queste faccenduole private. E io non mi ci rassegno” (p. 45).

Altrettanto efficace è il ritratto di Elsa Morante (1912-1985), del suo “sogno come esorcismo della menzogna”. Il capitolo sull’autrice dell’Isola di Arturo (1957) e della Storia (1974) si apre con un citazione di Cesare Garboli che così metteva a fuoco l'”antro della scrittrice”: “Scriveva chiusa e quasi segregata nella sua stanza; avendo per compagni un paio di gatti, la penna, la carta, l’inchiostro; e per compagni metaforici un alambicco e un globo di vetro. Lavorava arruffata e indemoniata come una strega, ma anche attenta, scrupolosa, assistita da quella grande capacità di astrarsi dal mondo e di stare assorte nel lavoro che avevano un tempo le sarte. Così le rughe si spianavano, il volto prendeva, per incanto, la freschezza del gelsomini, e la zingara diceva, ridendo, la ventura” (p. 78).

Giovanni Arpino (1927-1987) presagì presto “l’omertà letteraria” che lo circondava. Eppure era stato un Premio Strega nel 1964 con L’ombra delle colline, eppure Mario Pomilio aveva ribadito che, tra gli scrittori della sua generazione, era quello che “maggiormente aveva conservato fiducia nell’evidenza e per così dire nella eloquenza della realtà”. 

Arpino però sapeva difendere a spada tratta la sua ispirazione: “Alcuni critici mi rimproverano di costruire delle trame troppo semplici. Non mi sembra vero. Sono vicende dell’uomo di oggi che è inutile complicare con delle domande in più; già la storia di per sé è un nodo esistenziale da sciogliere e quindi va seguita nei suoi particolari…”. (p. 73).

Nella galleria letteraria ricostruita da Battaglia si intrecciano narratori, critici e poeti diversamente “sommersi”. Si riscoprono così le narrazioni mitiche di Corrado Alvaro, l’ostinata solitudine di Marino Moretti, l’eclettismo “straparlante” di Zavattini, la ricerca del sublime di Cancogni (il suo Azorin e Mirò “è il più bel racconto del dopoguerra”, p. 64) e il gusto della conversazione in Savinio. 

Applausi quindi a questo piccolo vademecum. Con la speranza che qualcuno raccolga la sfida e continui a disseppellire i Sepolti…