Anche se il Crocifisso, troneggiante al centro di piazza Chambeau, ora Diderot, a Langres, paese dove Denis Diderot ebbe i natali il 5 ottobre di trecento anni fa, è stato rimosso nel 1884 per essere rimpiazzato dall’effige del suo figlio più illuminato, posizionato rigorosamente con le spalle contro la cattedrale di san Mamete, per gli abitanti è rimasto il vero monumento “faro” della città.
Una cittadina dell’alta Marna dove sui muri delle case proliferano nicchie ospitanti immagini di Vergini o di Santi e dove per un po’ lo stesso Diderot pare aver accarezzato l’idea di diventare canonico: promozione sociale e assicurazione di ricchezza: cose più che attraenti soprattutto per i figli di quello che ancora non sapeva di essere il terzo stato.
300 anni fa un vastissimo pubblico era in attesa di opere che – come quella a cui più si lega il nome di Denis Diderot, l’Encyclopédie – potessero rispondere al bisogno di estendere il sapere e la comprensione dopo le numerose scoperte del secolo XVII nelle scienze fondamentali dopo quelle geografiche dei secoli precedenti.
All’inizio non doveva essere che la traduzione in quattro volumi della Cyclopedia or Universal Dictionary of the Arts and the Sciences di Ephraim Chambers, pubblicata nel 1728 in Inghilterra.
Nel frattempo, in Francia, era accaduto l’anno 1749, anno di carestie e di agitazioni per lo scontento causato dal trattato di Aix la Chapelle e per il tentativo di introduzione della Ventesima, cioè l’imposta proporzionale che si scontrava con i privilegi dell’Ancien Régime. In questa data si vedono apparire e moltiplicarsi scritti ostili alla religione. La guerra aperta tra scetticismo e fede.
Rulhière, nel suo discorso di ammissione all’Accademia di Francia nel 1787, affermò che in quell’anno iniziò “l’impero dell’opinione pubblica”: “il desiderio di istruire si espresse più di quello di dilettare e gli uomini solitamente dediti alle lettere, ebbero improvvisamente l’ambizione di essere gli organi dell’opinione pubblica se non addirittura gli arbitri”.
Come dice un autorevole biografo di Diderot, parlando dell’ateismo a cui si ispirò tutta la vita, esso fu probabilmente più dovuto ad un atteggiamento “proscientifico” che ad una specifica “antireligiosità”. In breve – sostiene Wilson – non è che ce l’avesse propriamente con Dio, quanto che non ne vedeva molto l’utilità.
Diderot, nei Pensées sur l’interprétation de la Nature del 1754, pur da ateo, rifiuta la geometrizzazione dell’Universo opponendosi a filosofi e uomini di scienza di ispirazione newtoniana, che lo paragonano ad un orologio costruito da un Dio architetto, e condanna le matematiche come puro gioco di regole fissate dall’uomo, senza fondamento oggettivo nella natura con il rischio di semplificarne in maniera eccessiva l’ordine.
Qui egli è forse l’erede diretto di quel pensiero libertino che aspira ad una universalità di giudizi fondata sulla ragione, ma di carattere essenzialmente critico e come conseguenza della coscienza che ciascuno deve avere dell’impossibilità di dare a qualsiasi questione una risposta di valore assoluto.
Questa dichiarazione non risulta pienamente comprensibile se non ci si riallaccia in qualche modo a quanto avveniva nemmeno un centinaio di anni prima nella Francia del pensiero libertino. Arnauld così descrive la situazione: “Non c’è mai stato un numero così grande di empi che lavorano a scalzare, per lo meno nei cuori e nelle intelligenze, la religione cristiana per introdurne una a loro modo, la quale non consiste nel migliore dei casi che nel riconoscere un primo autore dell’universo e nel vivere secondo la pura natura, senza preoccuparsi di tutto il resto, se non nella misura in cui vi si è obbligati per non turbare l’ordine pubblico”.
La conoscenza di altri popoli e altri modi di esprimere la relazione dell’uomo col divino avevano portato in quel periodo, successivo alle grandi scoperte geografiche, ad un ripensamento in primis del fatto morale: i primitivi dimostravano una condotta improntata ad un equilibrio ed a una “serenità” che non derivava certamente da dogmi religiosi, ma piuttosto da un “innato senso di bontà”. È inoltre allora che comincia a porsi insistentemente il problema di quanto una società in cui pare contare sempre più la forza e l’astuzia, possa essere fondata sui precetti evangelici di umiltà, mansuetudine, sincerità. E non sembra essere proprio un’applicazione di questa preoccupazione venata di sconforto, la casuistica applicata dai Gesuiti?
Se Diderot rigetterà, dunque, qualunque avallo al meccanicismo cartesiano, su cui confluirà molto pensiero libertino dopo il 1660, l’Encyclopédie, alla cui redazione e compilazione dedicherà venticinque anni consecutivi della sua vita, dal 1751 al 1772, sarà egualmente netta espressione dell’assunto libertino per cui la religione si colloca sullo stesso piano di ogni altro mezzo che serva per il mantenimento dell’ordine pubblico.
Quest’opera “immensa ed immortale” che è l’Encyclopédie, come la descriverà Voltaire, sarà strumento eletto per l’imporsi di un’altra religione, totalmente delegittimante quella tradizionale, e del cui frutto noi oggi siamo espressione evidente.
L’opera, certamente innovativa per l’apporto “scientifico”, basta pensare come l’Agricoltura dalle 32 linee che occupava nell’opera ispiratrice inglese di Chambers alle 14 colonne nell’articolo di Diderot, riunendo processi di fabbricazione, invenzioni e segreti di laboratorio qui come nelle altre svariate descrizioni di “arti meccaniche”, non manca però, sotto l’urgenza, e al ritmo di battaglie quotidiane tra i centocinquanta compilatori nonché con la censura, anche di qualche articolo che vide la luce in maniera per così dire, improvvisata.
È il caso per esempio dell’articolo dedicato alla voce nascere. Diderot lo estrapolò da una lettera all’amante e recita: “Venire al mondo. Se si dovesse dare una definizione rigorosa di queste due parole, nascere e morire, si incontrerebbero delle difficoltà. Ciò che ne diremo è puramente ‘sistematico’. Propriamente parlando non si nasce affatto; si era dall’inizio del mondo e ci saremo fino alla sua consumazione. Un ente che viveva si è accresciuto, sviluppato fino ad un certo termine per la giustapposizione successiva di infinite molecole. Passato questo termine, l’ente decresce e si risolve in molecole separate che vanno ad espandersi nella massa generale e comune”.
Come è evidente non è “un sapere tranquillo” come dice Leca-Tsiomis, quello che passa dalle pagine dell’Ecyclopédie, e non può non farci riflettere sul fatto che un progetto che aveva già come scopo un’Enciclopedia era stato espressamente di origine massonica, secondo quanto dichiarò Ramsay − eminente franc-masson − a Parigi nel 1737. Allora egli affermava che “tutti i grandi Maestri in Germania, Inghilterra, Italia e tutta Europa esortano i sapienti e gli artisti della Fraternità ad unirsi per fornire i materiali di un Dizionario universale di tutte le arti liberali e di tutte le scienze utili, escludendo teologia e politica”.
Nulla prova che Diderot sia stato iscritto a qualche loggia. Di certo sappiamo che riteneva che fosse imperativo “riunire le conoscenze sparse sulla faccia della terra, esporle in sistema generale e trasmetterle agli uomini affinché i nostri nipoti divenendo più istruiti divengano contemporaneamente più virtuosi e più felici” .
Da qui la grande intuizione circa la lingua come veicolo di conoscenze e quindi modello costitutivo di ogni usanza, vettore di ogni pregiudizio implicito della società. Di qui il suo “interrogare le parole”, perché il carattere di un vero buon dizionario è quello di “cambiare il comune modo di pensare”. I 17 volumi finali a fianco dei quali se ne disporranno ben 11 di sole tavole, danno l’idea di come il nuovo linguaggio, proprio anche attraverso l’illustrazione (oggi diremmo la televisione o la pubblicità) sia un nuovo modo elettivo di interpretare, attraverso quella che si vuole un a pura descrizione conoscitiva, l’uomo e il suo mondo.
E se la realtà per Diderot − come da lui sostenuto e ribadito − era una realtà puramente materialistica, tanto da giungere a definirla nel Sogno di d’Alembert una “fermentazione generale dell’Universo”, piace pensare qui alla chiusa di una delle sue lettere all’amata in cui, venendo ormai a essersi del tutto consumata la candela che gli rischiarava la notte incipiente, aggiunge in tutta fretta, giacché al buio non riusciva più a scrivere: “Dove non ci sarà nulla, leggete, vi prego, ti amo“.
Chissà, dove non ci sarà più nulla di materiale, forse, resterà sempre la possibilità di vedere quello che gli occhi e i sensi non vedono. La cosa più importante.