La tradizione del pensiero cristiano ha adottato immagini suggestive per catturare la realtà profonda del corpo visibile della Chiesa, in cui si innesta la vita nuova illuminata dalla fede. Il registro femminile e materno dell’amore che genera, nutre ed accoglie senza riserve sta alla base della metafora della Madre. Le sue stesse viscere sono il tessuto della misericordia spalancata in soccorso dell’uomo fragile e peccatore. In riferimento a Cristo, questo animo di carità che attira nel suo vortice e crea il miracolo dell’unità ha assunto la fisionomia della Sposa fedele. 



Ma il corpo misterioso in cui la multiformità dei tanti lontani e tra loro diversi si fonde nella comunione di “una cosa sola” non vive in un aldilà paradisiaco: la sua esistenza si prolunga dentro i limiti e le contraddizioni della storia concreta del mondo. Scontrandosi con il male che la minaccia dal suo stesso interno, la Chiesa ha voluto presentarsi anche nelle vesti della Nave che ci traghetta offrendo riparo mentre procede la navigazione in un mare agitato, pieno di insidie. Nuova Arca dell’alleanza, è la Barca di Pietro che si apre a ogni credente disposto a lanciarsi verso una terra ancora sconosciuta. Forte della sola sicurezza della speranza, robusta come una fortezza dalle solide mura, tra le sue braccia cresce l’umanità di un Popolo santificato, riunito in una Città ricostruita dalle sue fondamenta, anticipo della Gerusalemme senza macchie verso cui si rivolgono le attese di bene e di pace delle genti di ogni tempo.



In questa nobile proliferazione di antiche simbologie si inserisce anche il paragone con l’albero che affonda le radici nel terreno che gli dà sostegno e alimento. Noi vediamo i rami fiorenti. Ci ripariamo alla loro ombra generosa. Ne gustiamo volentieri i frutti saporiti. Ma questa vitalità prorompente non esisterebbe se alle sue spalle non ci fosse l’instancabile lavorio di una continua assimilazione, trasformazione e rigenerazione di succhi e sostanze prelevati dagli strati più nascosti del sottosuolo, senza i quali resterebbe arida la superficie riscaldata dal sole splendente. Così è, per analogia, nel cuore dell’esperienza cristiana che si tramanda sul filo dei secoli.



Come ha ricordato papa Francesco nel suo incontro con i responsabili del Consiglio episcopale latinoamericano, nel corso del viaggio a Rio de Janeiro per la XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù, “l’oggi è scintilla di eternità. Nell’oggi si gioca la vita eterna” (28 luglio 2013). Né l’utopismo dei sogni di perfezione proiettati presuntuosamente verso il futuro radioso, né, in senso opposto, l’appiattimento sugli schemi nostalgici di un passato bloccato nella sua capacità di crescere e di trasformarsi appartengono al vero spirito dello slancio cristiano. 

La verità della sequela di Cristo o riaccade incessantemente nel presente, oppure si riduce a ideologia teologica, da usare al massimo in una battaglia per l’affermazione del proprio progetto, dei propri interessi unilaterali, o come scudo per la “restaurazione” (così si esprimeva il papa nella medesima occasione) di “sicurezze dottrinali e disciplinari“, irrigidite nella loro cornice esteriore e svincolate dalla loro matrice originaria, tali da supportare, in senso “pelagiano“, la staticità di una egemonia di potere sulla vita del mondo, secondo il modello tipico della cristianità tradizionale d’altre epoche. Ma l’oggi dell’avvenimento cristiano non si fa da sé. Non sta in piedi da solo. Fiorisce nel presente in quanto fa riaffiorare e dà nuova vita alla forza inesauribile di propulsione che risiede nel suo legame organico con la più autentica ricchezza di un patrimonio pazientemente modellato nel fiume della storia millenaria della Chiesa.

La genialità trascinante del carisma educativo e missionario del nuovo papa si può misurare anche da questo punto di vista. Il suo insegnamento va deliberatamente al di là del bisogno di insistere in senso precettivo, mettendola distesamente a tema, sulla necessità dell’ancoraggio alla tradizione della Chiesa come corpo vivente, chiamato a rinnovarsi senza sosta e a ricongiungersi in ogni mutevole circostanza con la fonte da cui tutto il resto fluisce. La simbiosi con il grembo fecondo da cui matura la vita nuova che fiorisce nel presente (e se non fiorisce nel presente, non è più nemmeno vita) è ricondotta al suo fulcro costitutivo. La proposta, per essere radicale, non si disperde nei particolari secondari. Va risolutamente al centro. Mi sembra che si collochi qui la sola chiave di lettura adeguata per comprendere fino in fondo una preoccupazione che è costante (e gerarchicamente primaria) nel modo usato da papa Francesco per richiamare l’uomo del nostro tempo al fascino suggestivo dell’ipotesi cristiana. La coerenza della verità, l’umile adesione alla logica oggettiva dei fatti impone di ristabilire un ordine di precedenze: le conseguenze e gli sviluppi non possono venire prima, o avere la stessa dignità di rilievo di ciò che è l’architrave dell’esperienza della fede. Bisogna fare leva sull’essenziale. A tutto occorre guardare puntando sul primato di ciò che sorregge e fa vivere la varietà rigogliosa delle espressioni che altrimenti, private della loro linfa, inevitabilmente sclerotizzano e decadono.

Questa ansia di concentrazione ha dominato le parole e prima ancora i gesti, lo stesso modo di porsi, del papa nei suoi primi mesi di pontificato. Sotto l’emblema della fede consegnata al rapporto vivo e coinvolgente con la realtà suprema di Cristo si era inaugurato il viaggio in Brasile che abbiamo ricordato: “Io non ho né oro né argento, ma porto ciò che di più prezioso mi è stato dato: Gesù Cristo” (cerimonia di benvenuto a Rio, 22 luglio). 

In un contesto altamente significativo sul piano degli indirizzi del governo generale della Chiesa, lo stesso principio orientativo del centro da cui tutto deve ripartire è alla base del recente discorso tenuto al Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione (14 ottobre 2013).

Per andare incontro agli uomini che ci sono compagni nel cammino, sottolinea il papa, “dobbiamo spogliarci di cose inutili e dannose, di false sicurezze mondane che appesantiscono la Chiesa e danneggiano il suo volto“. Il compito indicato è quello di una purificazione risanatrice. Semplificando, sfrondando, ripulendo, non si fa opera di distruzione, ma si risale al centro sorgivo della vita cristiana di ogni tempo. Questo centro è l’immedesimazione nella realtà di Cristo, attraverso cui si dilata e si riversa nel mondo l’autodonazione della misericordia senza confini di Dio, che salva la vita dell’uomo: la “grande missione di Cristo“, che “è uscito dalla sua condizione divina ed è venuto incontro a noi“, è consistita, infatti, nel “portare la vita nel mondo, l’amore del Padre all’umanità“. E d’altra parte, ancora, l’onda della carità che si propaga è un movimento incessante che ritorna sempre su sé stesso, senza arrestarsi mai. “La Chiesa è all’interno di questo movimento, ogni cristiano è chiamato ad andare incontro agli altri“. Chi si immerge nella dinamica della comunicazione dell’amore divino, pronunciando il suo sì a Cristo, “non può tenere per sé questa esperienza, ma sente il desiderio di condividerla, per portare altri a Gesù“. L’amore di Cristo ci assimila a Lui e ci trasforma in veicoli di ulteriore moltiplicazione contagiosa della sua grazia: “Ogni battezzato è cristoforo, cioè portatore di Cristo, come dicevano gli antichi santi Padri“; “c’è bisogno di cristiani che rendano visibile agli uomini di oggi la misericordia di Dio, la sua tenerezza per ogni creatura“.

Ne discende, alla fine, un impegno preciso anche per le guide poste a capo del popolo dei fedeli. Se è giusto parlare ancora di un “progetto pastorale“, allora deve essere un “progetto che richiami l’essenziale e che sia ben centrato sull’essenziale, cioè su Gesù Cristo“. Ciò che serve è “concentrarsi sulla realtà fondamentale, che è l’incontro con Cristo, con la sua misericordia, con il suo amore, e l’amare i fratelli come Lui ci ha amato. Un incontro con Cristo che è anche adorazione, parola poco usata: adorare Cristo. Ci vuole una impostazione “animat(a) dalla creatività e dalla fantasia dello Spirito Santo, che ci spinge anche a percorrere vie nuove, con coraggio, senza fossilizzarci!“. 

L’audacia invocata sta nel rendersi aperti alle sfide inesauribili della novità, ma aggrappati, nello stesso tempo, al fondamento di una roccia su cui si può costruire muovendo da una amorosa educazione a riconoscere i segni del divino che agisce in mezzo alla storia degli uomini. 

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