Il berlusconismo nella storia d’Italia di Giovanni Orsina (Marsilio, 2013) non è un libro di politica, è un libro di storia e di teoria politica per comprendere non solo le forme e gli strumenti del berlusconismo, ma la sua sostanza storico-politica, le ragioni della sua ascesa e del suo declino. Pertanto esso merita assai più di una recensione, serve un riassunto.
Il lavoro di Orsina colloca il fenomeno berlusconiano lungo l’asse diacronico della lunga durata della storia italiana. Il che non significa riproporre lo schema di molti analisti, secondo cui il berlusconismo ha a che fare con la storia italiana solo nel senso che ne riprenderebbe i tratti antropologici peggiori: familismo amorale, sfiducia nello Stato, violazione sistematica delle regole ecc… Orsina fa un passo in avanti: il berlusconismo non solo come frutto dell’anomalia italiana, ma anche come tentativo di risolverla. A questo aggiunge un altro approccio: lo studio del berlusconismo dal punto di vista di chi lo ha votato.
Il fatto è che quello del berlusconismo è un universo tolemaico, finora studiato quasi esclusivamente da seguaci intransigenti e irascibili di Copernico. Il libro invece propone, per comprendere non solo “la pancia”, ma anche “la testa” del berlusconismo, di sostituire alle spiegazioni fondate sulla scarsa intelligenza, scarsa moralità, scarsa razionalità ecc. degli elettori di Berlusconi un’analisi della loro diversa intelligenza, diversa moralità, diversa razionalità.
Da ultimo, propone un approccio non solo italiano: il berlusconismo come manifestazione italiana di trasformazioni della democrazia post-novecentesca a livello mondiale, al cospetto dei fenomeni di globalizzazione e di integrazione difficile delle unità statali in contesti sovranazionali. Da questo punto di vista il caso italiano è un caso eclatante di post-democrazia o, per usare l’espressione di Pierre Rosanvallon, di “contro-democrazia”.
La questione italiana e il giacobinismo andato a male – La tesi del libro è che il berlusconismo è frutto della peculiarità italiana, quello che il sinistrese politologico degli anni 60/70 del Novecento chiamava “il caso italiano”. In che cosa consiste? Che l’Italia si è presentata sulla scena degli Stati nazionali nell’800 come paese mediterraneo arretrato rispetto ai paesi europei del nord. Le classi dirigenti del Paese, a partire dall’intervento napoleonico in Italia, hanno adottato il modello giacobino. Lo strumento per fare uscire a tappe forzate l’Italia dall’arretratezza è tutto politico: uno stato, un partito, una rivoluzione.
La chiave di lettura della vicenda italiana, secondo Orsina, è “quella delle operazioni in senso lato giacobine, ortopediche e pedagogiche”, che lungo i vari regimi (liberale, fascista, repubblicano) hanno tentato di realizzare dall’alto, appunto attraverso apparati politico-istituzionali-amministrativi ortopedici, il raddrizzamento e la rieducazione del Paese.
Rifacendosi al filosofo liberale inglese Michael Oakeshott, Orsina ne ripropone, quale chiave interpretativa, la dicotomia tra politica della fede e politica dello scetticismo.
La politica della fede ritiene che la politica debba essere al servizio della perfezione dell’umanità e che il potere si debba espandere nella società e non debba essere limitato dai formalismi istituzionali. Insomma: la politica è l’attività più nobile e più alta e i politici sono perciò servi, leader, salvatori della società. La politica dello scetticismo non persegue la perfezione, non crede che il governo sia di per sé buono; è solo necessario per impedire la degenerazione delle interazioni umane. Perciò il potere politico va limitato, i politici sono fatti della stessa pasta degli altri uomini.
L’età contemporanea, secondo Oakeshott, è stata caratterizzata dalla politica della fede. E questo è valso, a maggior ragione, nel processo di unificazione dell’Italia, nel quale il tasso di giacobinismo delle classi dirigenti liberali si è elevato, soprattutto quando i piemontesi hanno incorporato il sud borbonico. Al pensiero del filosofo politico inglese, Orsina collega quello di Karl Popper, là dove critica Platone. Alla radice della filosofia politica platonica sta la domanda: “chi deve governare?”. Una volta identificata l’élite giusta, ne viene postulata immediatamente l’inamovibilità. Secondo Popper la domanda corretta è invece: “Come possiamo organizzare le istituzioni politiche, in modo da impedire che i governanti cattivi e incompetenti facciano troppo danno?”.
Ora, la storia politica italiana è una storia platonica. Il che ha avuto almeno due effetti: in Italia nessuna classe politica è stata sostituita pacificamente: non quella liberale, non quella fascista, non quella repubblicana. L’altro effetto è che la politica italiana è strutturalmente oligarchica, incapace di colmare lo iato tra élite e popolo, per sanare il quale si candida al potere, in contrapposizione con la classe precedente. Ed è questo il paradosso del giacobinismo d’importazione: l’élite si autopercepisce come virtuosa e perciò inamovibile, che impone dall’alto le scelte al Paese.
Ma con ciò, invece di ridurre lo iato, lo allarga, finché non insorga un’altra élite che rovesci traumaticamente quella precedente. Anche perché, nonostante l’illusione di autoseparazione dagli interessi sociali “sporchi” del Paese, alla fine avviene una colonizzazione reciproca. L’esito nella storia italiana è stato quello della “privatizzazione monopolistica dello spazio pubblico” da parte dell’élite platonica spesso mutatasi in “privatizzazione pluralistica (ma viziosa) del pubblico da parte degli interessi sociali” che sono riusciti a contrattare con il pubblico.
Insomma: “un giacobinismo andato a male”, che non ha ancora risolto il problema dell’arretratezza socio-economica e ideologico-culturale dell’Italia.
L’ossessione platonica di costruire le élites invece che le istituzioni e delle regole a garanzia di tutti per sostenere l’opera di modernizzazione del Paese ha portato le élites a fare uso “privato” delle istituzioni stesse, trasformandole in strumenti di clan. Di qui l’avvitarsi, in un circolo vizioso senza fine, di opposizioni, elusioni, evasioni, resistenze, opportunismi rispetto alla dimensione pubblica, la ricerca di nuove élites, da un regime all’altro.
Citando Silone: “Qui non c’è via di mezzo: o ribellarsi o essere complici”. E la ribellione ha finito storicamente per assumere le forme dell’anti-sistema o del populismo, che poi hanno generato a loro volta altre élites con le stesse caratteristiche di quelle abbattute. I meccanismi di autoriproduzione delle élites, infatti, non possono essere meritocratici: la qualità è subordinata all’appartenenza. Di qui clanismo, divisività, disintegrazione della stessa possibilità di una conversazione pubblica, finalizzata a raggiungere una verità condivisa invece che a legittimare il potere di una parte.
Conseguenza: la verità in questo paese non è possibile. Orsina cita Flaiano: “in questo Paese che amo non esiste semplicemente la verità… In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi”. Donde l’arruolamento fazioso degli intellettuali italiani, schierati al seguito di un’élite e a sostegno dei suoi specifici progetti ortopedici e pedagogici.
Polemizzando sull’uso della categoria di necessità con alcuni storici quali Aquarone o Scoppola – secondo i quali il disegno giacobino era necessario – Orsina chiude il primo capitolo dedicando un paragrafo all’Italia illiberale. Perché l’Italia è illiberale? Primo, perché al momento dell’unificazione non era dotata di una società civile in grado di sostenere l’ingresso dell’Italia nella modernizzazione europea. Secondo, perché, a quel punto, l’élite modernizzante ha tentato di costituire una libera società civile per una via rapida, forzosa, autoritaria, dall’alto. Terzo, l’élite si è trasformata in clan: subordinando agli interessi di parte le regole, le istituzioni, la verità disintegra la possibilità che si possa istituire una zona neutra in cui si possa conquistare una verità condivisa. Perciò il confronto tra clan si fa distruttivo; l’avversario deve essere annientato.
(1 − continua)
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Il libro sarà presentato lunedì 4 novembre a Milano, Galleria Vittorio Emanuele II 79, ore 18. Ne discutono con l’autore Piero Ostellino e Michele Salvati, modera Piergiorgio Mancone.