Seguitemi, seguitemi cantando
la celeste figlia di Zeus,
Artemide, a cui stiamo a cuore

“A cui stiamo a cuore”, “a cui importiamo”, “che ci tiene a noi”: sono tutte possibili traduzioni di una delle frasi più struggenti create da un autore pagano. 

Le canta Ippolito nell’omonima tragedia di Euripide, guidando un gruppo di amici che sono seguaci, dietro suo esempio, di Artemide. Il giovane, figlio spurio di Teseo, è cresciuto lontano dalla famiglia legittima del padre ma ha avuto l’educazione e l’appoggio del nonno paterno Pitteo; ora la sua dedizione e il suo appassionato affetto sono rivolti alla dea vergine, cui ha consacrato la propria castità. Vive la sua scelta con gioia, come una grazia, con la certezza di essere ricambiato dalla dea, di starle, appunto, a cuore: “A te, Signora, porto questa ghirlanda intrecciata che ho armoniosamente composto da un prato incontaminato, dove né il pastore ritiene giusto far pascolare le greggi, né è mai giunto il ferro, ma l’ape a primavera attraversa in volo il prato intatto, e Pudore lo coltiva con acque fluviali: quelli che nulla hanno acquisito, ma possiedono nella natura la saggezza in tutto e per sempre, hanno diritto di cogliere, i malvagi no. Deh, cara Signora, accogli da una mano pia la corona per i tuoi capelli d’oro. Io solo infatti  fra i mortali ho questo dono: vivo con te e scambio parole, ascoltando la tua voce, pur non vedendo il tuo volto. Possa io vivere fino alla fine come ho cominciato.



Ma il poeta degli ultimi decenni del secolo V non condivide la certezza del suo personaggio. Tutta la sua opera è l’espressione di un desiderio irrisolto, di un’immagine divina che non trova riscontro nell’esperienza: “il pensiero degli dèi porta via ogni dolore, ma benché io nutra la speranza di capire vengo meno quando scruto i casi dei mortali dice il Coro in un passo della tragedia. Per sopravvivere occorre ridurre l’altezza delle proprie esigenze, venire a patti anche con gli altri dèi, come dice il servo nel prologo: “Noi invece – non bisogna imitare i giovani che ragionano così – come è opportuno che parlino gli schiavi pregheremo la tua immagine, signora Afrodite. Se qualcuno che per la giovinezza ha un’indole impetuosa ti lancia vane offese, bisogna averne comprensione: fai finta di non avere udito: gli dèi devono essere più saggi degli uomini. 



Eppure anche le parole di umano buon senso del servo esprimono un frammento del desiderio irrisolto di Euripide: dèi capaci di perdono, di comprensione verso un’assolutezza entusiasta, di rinuncia all’ossequio e alla vendetta.

Afrodite persegue con lucidità spietata la vendetta verso chi la rifiuta, passando sopra una donna, la matrigna di Ippolito, costretta ad un amore che porterà alla rovina entrambi: “Fedra ha buona fama, ma tuttavia perirà: infatti non darò importanza alla sua sventura tanto da non ottenere giustizia sui miei nemici“. Euripide sceglie di non fare di Fedra una donna passionale, come saranno molte Fedre successive e come la tradizione mitico/folklorica gli offriva (il tema del casto insidiato attraversa diversi miti, oltre alla storia del Giuseppe biblico): la sua Fedra ha buona fama e ci tiene al punto tale da accusare un innocente e distruggere se stessa pur di nascondere un amore che non le appartiene e che ha cercato di respingere. 



Ippolito, vincolato al silenzio da un giuramento cui resta fedele, subisce l’accusa e il sarcasmo del padre: “Tu dunque vivi con divinità pensando di essere speciale? Proprio tu sei saggio e incontaminato dal male?” Ridotto in fin di vita dalla maledizione paterna, è sopraffatto dalla delusione: “Zeus, Zeus, vedi questo?” E il Coro di donne ha una frase che è quasi di bestemmia: “Sono adirata contro gli dèi“.

Ma se la rovina di Ippolito passa per il rancore di una dea, il fragile perbenismo di Fedra e la incosciente credulità di Teseo, dov’è Artemide? Qual è la fedeltà verso chi tanto gioiosamente si illudeva del suo affetto?

Fra le varianti del mito di Ippolito è presente in varia forma la salvezza ad opera della sua dea: sceglierà questa variante Virgilio. Ma non è la scelta di Euripide. Artemide interviene quando il giovane è morente, e l’annuncio della sua innocenza assume la modalità del rimprovero distruttivo verso Teseo che ne rimane annientato. Al suo fedele Artemide promette vendetta e onori presso i posteri: poi lo lascia per non contaminarsi con la sua morte, raccomandandogli di non odiare il padre. Ippolito la saluta con un ossequio venato di amarezza: “Va anche tu col mio saluto, o vergine felice: ma ben facilmente abbandoni una lunga amicizia“. E tuttavia alla tiepida e deludente amicizia della dea il giovane corrisponde fino alla fine con una fedeltà obbediente che giunge al perdono del padre, forse l’unico esempio di perdono in un testo pagano.

Impetuoso, assolutista, non a caso giovane e figlio di un’amazzone, l’Ippolito euripideo è un grande personaggio che ha riposto la sua speranza in divinità che non la meritavano e ha giocato su di essa la sua vita. 

Ci saranno altri Ippoliti: ma il venir meno del senso ultimo delle scelte ridurrà i personaggi a rozzi misogini, a sportivi salutisti, sempre più evanescenti rispetto a Fedre sempre più  psicologicamente o patologicamente complesse, o addirittura innamorati segretamente di altre. L’incomprensione verso la profondità del personaggio euripideo finirà per distruggerlo (e infine a togliere senso anche all’amore di Fedra). 

Forse solo Orazio ha colto il senso malinconico della storia, quando rileva l’impossibilità di una salvezza anche per chi è pio: infatti Diana (Artemide latina) non libera dalle tenebre degli Inferi il casto Ippolito.