“Occorre resistere sul terreno della letteratura”. A dirlo è Paolo Valesio, docente di italianistica nella Columbia University di New York. Ilsussidiario.net ha fatto un punto con lui sullo stato dell’italianistica negli Stati Uniti. I nostri autori, infatti, si trovano in una strana situazione: quella di subire una pressione sempre più forte, una “contaminazione” invadente di problematiche e di temi ad essi estranei, come quelli riguardanti il gender, l’uguaglianza dei sessi, la povertà, le migrazioni, eccetera. Temi che c’entrano poco o nulla con D’Annunzio, Ungaretti e Montale, figurarsi con Petrarca e Boccaccio. Avanti con la letteratura, dunque. “Non sarebbe la prima volta che una posizione apparentemente conservatrice si rivela essere il vero elemento di progresso” dice Valesio.
Professore, qual è lo stato dell’italianistica negli Stati Uniti? La nostra letteratura suscita ancora fascino e attrae studenti nei dipartimenti di italianistica?
La diminuita – ma tutt’altro che scomparsa – attrattiva della letteratura italiana è parte di un processo generale di calo d’interesse verso gli studi propriamente letterari, dunque non è un fenomeno che riguardi soltanto l’italianistica. D’altra parte la letteratura italiana, con il suo carattere fortemente umanistico nel senso più tecnico e filologico del termine, presenta particolari difficoltà per chi in generale è disabituato a un certo tipo di preparazione – per esempio, una qualche familiarità con la lingua latina.
Nel campo delle humanities, in che cosa si differenziano i metodi della ricerca europea da quelli statunitensi?
La ricerca statunitense è da molti anni caratterizzata da una forte influenza di temi ideologici (come il femminismo) e sociali (per esempio, i cosiddetti “cultural studies”) nella ricerca letteraria.
Il modello di ricerca italiano, orientato alla ricostruzione complessiva del quadro storico e dei fenomeni letterari connessi, è considerato ancora un modello da imitare o è stato surclassato dall’analisi statunitense caratterizzata dal settorialismo e dall’iperspecializzazione?
Mi sembra che il conflitto (o, più ottimisticamente, la dialettica) fra ricostruzione complessiva e settorialismo esista sia nel contesto statunitense sia in quello dell’italianistica italiana.
Come il paese “ospite” condiziona lo studio dell’italianistica?
Avevo parlato qualche tempo fa di un processo di “colonizzazione” (semplificando, ma non poi troppo) per cui le università angloamericane dettano oggi le tematiche e i metodi della ricerca italianistica. Oggi invece parlerei piuttosto di una “colonizzazione” reciproca: gli italianisti americani inseriscono nella ricerca letteraria italiana tematiche ideologiche e sociologiche, mentre gli italianisti italiani controbattono con l’inserzione di tematiche più propriamente politiche.
Quali vantaggi ha portato il “condizionamento” americano?
In generale, al di là dell’introduzione a volte sommaria di certi contenuti, il vantaggio è quello di sviluppare una maggiore consapevolezza metodologica.
Il successo di certe tematiche (problema della razza, identità sessuale…) e di certe prospettive e ambiti di ricerca (gender studies, cultural studies…) è in parte frutto dell’ingerenza della politica nella vita accademica americana?
Nell’italianistica più che in altri settori linguistico-letterari si nota uno sconfinamento della micropolitica universitaria in macropolitica: da un certo opportunismo “politicamente corretto” nella scelta dei corsi di studio e dei soggetti di tesi di laurea si tende a traboccare verso un attivismo ideologico e semi-partitico.
Questa eventuale ingerenza assicura allo studio umanistico un ancoraggio alla realtà o rappresenta un limite allo sviluppo libero e disinteressato dell’italianistica?
Sorge il sospetto che un certo atteggiamento condiscendente e ipercritico dell’italianistica “americana” verso l’Italia costituisca in parte un alibi incoraggiato dagli ambienti universitari americani per spostare l’attenzione dai problemi americani, che sono in generale più gravi di quelli italiani: maggiore rigidità della legislazione migratoria, tumultuosità della problematica di identità sessuale, maggiore oppressività del controllo statale, militarismo, maggiori pulsioni di violenza (pena capitale, proliferazione delle armi da fuoco), nazionalismo fondato sull’idea dell’ “eccezionalismo” americano.
Quali autori predilige in sede didattica e perché?
La scelta dei miei autori, che comunque non è mai stata iperspecialistica, è sempre nata dai miei desideri di ricerca, e poi è stata portata sul terreno della didattica. Questa continua a sembrarmi la priorità giusta: altrimenti, se si punta subito sulla didattica, si corre il rischio della ricerca della popolarità, dunque della strumentalizzazione ideologica. Comunque i miei autori prediletti sono in generale autori, per così dire, di frontiera; come Francesco d’Assisi e i “Fioretti”, Teofilo Folengo e la poesia macaronica, la Scapigliatura e il racconto fantastico, Gabriele d’Annunzio e il simbolismo, Antonio Fogazzaro e il modernismo, Filippo Tommaso Marinetti e il futurismo.
Quali scelte adottare?
Prima di tutto, occorre resistere sul terreno della letteratura: non sarebbe la prima volta che una posizione apparentemente conservatrice si rivela essere il vero elemento di progresso.