La secolarizzazione delle istituzioni e la laicizzazione dei costumi sono delle evidenze manifeste. La strada che conduce davanti ai portali delle chiese e spinge a varcarli si è fatta lunga e accidentata. Passa per domande inquietanti, a volte per derive personali, in qualche caso – minoritario – per desiderio di ricerca sincera del Vero. Dire, come fa Roberto De Mattei nel suo ultimo articolo uscito sul Foglio (“Processo ai nuovi modernisti”, 26 nov.), che “l’esistenza di Dio prima di essere una verità di fede, è verità filosofica, che può essere dimostrata dalla ragione” renderebbe l’attuale scomparsa di Dio una semplice e grossolana svista filosofica, prima di essere quello che è: una totale invisibilità delle tracce della Sua presenza una volta all’interno di una società massicciamente secolarizzata. In realtà la secolarizzazione è un dato evidente e Dio è diventato veramente “il grande sconosciuto”, come ha affermato Benedetto XVI nella sua conferenza al Collège des Bernardins. Una tale mancata conoscenza non è certamente l’esito di una documentazione insufficiente, né di una formazione religiosa carente, bensì il risultato di un processo ben più grave: il venir meno delle ragioni prime della ricerca. 



Detto in termini bruschi e schematici propri di noi sociologi: Dio non è più un’evidenza originaria, mentre ad essere evidente, al contrario, è proprio la sua assenza. Alla base di quest’ultima c’è un’intera società moderna che si è elaborata, strutturata e pensata etsi Deus non daretur, come se a Dio nulla dovesse essere dato. Ed in effetti è sotto gli occhi di tutti come l’intero sistema sociale nei suoi diversi ambiti (giuridico-politici, economico-produttivi, culturali-espressivi, tecnico-scientifici, valoriali e morali) possa dispiegarsi senza nessun riferimento al trascendente. Senza nemmeno la necessità di porsi la domanda sulla Sua esistenza. Come sicuramente de Mattei converrà, in questo assordante ed agghiacciante silenzio cade anche l’intera metafisica: “le ancore nel cielo” di cui parla Rémi Brague sembrano non occupare più il proscenio, mentre al loro posto si afferma il primato schiacciante della “razionalità strumentale”.



Se questo è vero, c’è allora da chiedersi da dove saltino fuori il miliardo e passa di credenti. Dalla semplice miseria materiale, come sostengono Inglehart e Norris? E quando si incontrano i credenti nel cuore dell’Occidente, o tra i ceti non svantaggiati di qualsiasi continente, da cosa sono spinti? Si tratta solo del desiderio di iscriversi in una “tradizione credente”, come sostiene Danièle Hervieu-Léger? Veramente la miseria materiale e l’affetto alla tradizione sono gli unici “compagni di strada” di un moderno desiderio di Dio o forse c’è anche altro? 



Quest’altro è certamente costituito da ciò che dice de Mattei e che mi permetto di riassumere nel termine di “ricerca razionale del Vero”. Ma una tale ricerca, in un contesto di radicale assenza di Dio, non nasce nelle biblioteche ma all’interno del cammino interiore di ciascuno e non si muove, non si commuove, a partire dalla lettura di pagine sublimi, ma solo se provocata dall’impatto concreto, percepito dentro ogni propria fibra, con una speranza concreta che si è fatta carne. È l’impatto con chi crede senza riserve e ha virato la propria vita nella direzione di un rapporto serrato con la Verità rivelata che scompiglia le carte e annuncia la possibilità di incamminarsi per un sentiero che non si era mai pensato di percorrere. Detto in altri termini è l’incontro con i “testimoni” che accende il desiderio di dirigersi là dove questi indicano. Solo così il portale di una chiesa recupera, agli occhi di un uomo moderno, il proprio significato.

Ciò spiega come le attuali forme di adesione alla verità rivelata transitino sempre per la scoperta ed il riconoscimento di chi un tale incontro lo ha già fatto e lo testimonia con la propria esistenza. Sono infatti queste figure di prima linea che fanno da “compagnia” al desiderio individuale e soggettivo di verità, ne accompagnano i primi incerti passi. In qualche modo siamo molto vicini al concetto di santità e se non tutti i testimoni sono anche santi tutti i santi sono certamente testimoni. A differenza radicale dell’universo protestante che lascia l’individuo in compagnia della sua sola esperienza, il cattolicesimo mostra come non ci iscriva solo in una “tradizione credente”, ma ci si leghi anche a persone concrete, ad una chiesa carnale fatta di uomini e donne di Dio, che hanno sconvolto la loro storia, prima di sconvolgere anche la nostra. Non è un caso se, accanto ai testimoni, sono le figure dei santi e soprattutto quella, decisiva, di Maria corredentrice, a detenere un peso rilevante.

Roberto de Mattei tralascia proprio questa dimensione della testimonianza – che spesso sfocia in santità – che è parte importante dell’incontro di cui parla don Giussani. L’altro non è uno qualsiasi, ma un “santo di Dio”, inteso come qualcuno che ha buttato il cuore oltre l’ostacolo, con tutti i suoi limiti personali, ma anche con tutta la sua generosità. Seguirlo non ha alcun senso se non si guarda a ciò che questi ci indica: la Chiesa, con i suoi sacramenti, le verità di fede, ma anche la sua presenza concreta e la sua compagnia. Si comincia allora quel cammino che passa anche dentro i contenuti. Perché quando ci si tiene a qualcuno, tutto quello che dice o fa ci interessa. 

È merito di don Giussani e di quelli come lui che hanno intuito come solo l’impatto con una Chiesa vissuta da una comunità di credenti, ed attraverso la straordinaria mediazione esercitata dai “santi di Dio”, si potesse consolidare quell’avvio concreto ad una partecipazione e ad una corrispondenza a misura di una società per la quale Dio è veramente “il grande sconosciuto”. 

La conclusione è quindi radicalmente opposta a quella di de Mattei: non solo l’esperienza di Comunione e liberazione, esattamente come quella di altri movimenti, ha costituito un argine alla crisi, ma è proprio l’assenza di esperienze e di incontri concreti che l’ha mestamente determinata.

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