L’altro giorno stavo pensando quale fosse l’argomento ideale da trattare per una delle mie riflessioni su queste pagine. Talvolta gli spunti arrivano da un evento. Altre volte da un fatto di cronaca. Altre ancora da stimoli letterari. Non mi sembrava che ci fosse nulla di particolarmente significativo. Fino a quando ho pensato che il giorno seguente mi sarei recata con mio figlio a vedere la mostra “Brain” al Museo di storia naturale di Milano. In un attimo, mi sono resa conto che il tema era davanti a me da qualche settimana e che la mostra era soltanto il passaggio finale.



Tutto è cominciato con la lettura dell’ultimo lavoro di Gianvito Martino, medico neurologo che dirige la Divisione di Neuroscienze dell’Istituto Scientifico Universitario San Raffaele di Milano. “Per indicare che un tratto è caratteristica strutturale della nostra identità – afferma Gianvito nel libro Il cervello gioca in difesa – si sente spesso dire che ‘fa parte del nostro dna’. Forse, alla luce delle conoscenze attuali, sarebbe meglio affermare che ‘siamo’ il nostro dna, ma un dna che guida ed è guidato dall’interazione biologica con altri sistemi e che durante l’evoluzione ha saputo trasformarsi, grazie alle sollecitazioni che ha ricevuto dall’ambiente in cui si è venuto a trovare e con cui ha interagito”. E ancora: “Siamo dunque le parole che abbiamo e non abbiamo detto durante il dialogo intrauterino. Siamo quello che abbiamo vissuto epigeneticamente nei primi giorni di vita e che poi ci condiziona anche da adulti. Siamo dove viviamo e ciò che incontriamo… siamo lo stress che abbiamo cercato di comprendere fin da piccoli e che da grandi spesso non sappiamo gestire perché confuso tra violenza psichica e disagio corporeo. Siamo quello che eravamo, noi e gli altri”.



Quello che mi ha colpito di questo lavoro scientifico, ma fortemente divulgativo, è la volontà di spingere le persone a partire da una realtà di ricerca per calarsi dentro l’uomo. Per tornare a leggere il libro della natura e comprendere, da dove arriviamo, dove siamo oggi e dove andremo domani.

Interrogarsi sui 100mila miliardi di cellule del nostro corpo o sui 10mila nuovi neuroni prodotti dal nostro cervello quotidianamente, non è soltanto immergersi nell’oceano affascinante e complesso della “gaia scienza”, ma significa anche tornare ad un umanesimo che si confronta con i grandi misteri della vita e che prova, se non a dare delle risposte, almeno a porsi delle domande. Ecco perché è assolutamente curiosa la coincidenza che mi ha portato, pochi giorni dopo aver finito la lettura di questo testo, a ritrovare lo stesso filo rosso nella mostra milanese.



“Non c’è alcun bisogno – si legge nella prefazione del libro che accompagna l’esposizione intitolato Brain, il cervello. Istruzioni per l’uso – di avventurarsi nei reconditi meandri del cosmo per imbattersi nel mistero più fitto dell’universo, sarà sufficiente limitarsi a ciò che si trova tra le nostre orecchie. Non esistono sfide tanto emozionanti per la mente umana quanto lo sforzo che compie per comprendere il funzionamento del cervello di cui è il prodotto”. Potrà sembrare che ci si trovi di fronte a materia di pochi studiosi, o di appassionati di neuroscienze o filosofia. Ma non è così. E la testimonianza più forte in questo senso è la coda di quasi un’ora e mezza che ho dovuto fare con mio figlio per entrare al museo.

Nell’incantevole cornice dei giardini di Palestro e davanti alla facciata appena restaurata del Museo di storia naturale, ho passato il pomeriggio, attendendo pazientemente di visitare la mostra con tante persone di diversa estrazione sociale, età ed interessi. Vedere famiglie con bimbi piccoli o coppie giovani e di anziani non demordere fino all’ultimo pur di entrare, mi ha fatto un immenso piacere perché significa, da un lato, che quando si portano avanti progetti interessanti la risposta del pubblico arriva e, dall’altro, che abbiamo ancora la curiosità e la voglia di interrogarci su quello che ancora oggi resta il mistero più grande: l’uomo.

In un mondo che cambia molto velocemente e che vede gli equilibri crollare per poi rinascere in un modo differente, penso che sia fondamentale avere la forza di tornare ad essere curiosi, di capire meglio noi stessi per poi provare a comprendere gli altri e vivere in modo più sostenibile, sia rispetto alle altre popolazioni, sia rispetto alle generazioni che verranno.

Il successo che la mostra ha avuto per otto mesi a New York testimonia che non si tratta di un fenomeno passeggero, ma della felice intuizione dei curatori Rob DeSalle e Ian Tattersall. Il secolo scorso, si ricorda in questo percorso, è stato quello della scoperta del dna. Questo che stiamo attraversando si sta configurando come quello della sfida alla comprensione del cervello. Questo potrebbe portare a terapie rigenerative per malattie che oggi rappresentano una piaga globale. L’organizzazione mondiale della sanità parlava, già nel 2002, di 50 milioni di epilettici e di 24 milioni di persone con una qualche forma di demenza, fino ad arrivare, nel 2005, ai 61 milioni di persone colpite da ictus. Ma accanto all’importantissimo risvolto scientifico, va sottolineato che, nel mondo dei “Big data” e dell’innovazione tecnologica avanzata, stiamo riscoprendo che la creazione più incredibile, complessa, meravigliosa e stimolante è ancora dentro di noi.