Lontano da Mosca, nel lungo viaggio per tappe che la nostra delegazione di scrittori italiani ha compiuto, si spalanca una terra completamente diversa. Nella gran città: luci, palazzi, traffico; nella Russia centrale spazi, lunghi rettilinei scorrevoli, foreste e campi. Radunate in piccoli villaggi o alle periferie dei centri maggiori, sfilano casette di legno, spesso invecchiate, talvolta risistemate, ma sempre dignitose e decorate a colori vivaci e con merletti di legno.
Mi chiedo come sia il popolo ci vive. Di frequente, lungo la strada, gente seduta su panchetti improvvisati vende funghi, zucche, marmellate e l’unico frutto di Russia, la mela. Talvolta questi venditori sono babuške, le nonnette russe, che sembrano barcollare ai lati della via e invece sono indistruttibili e probabilmente, in altre epoche, hanno conservato lo spirito autentico della loro terra. Col passare dei giorni e dei chilometri riusciamo a far comprendere ai nostri accompagnatori russi un concetto squisitamente italiano: la pausa-caffè. Allora Andrej, il nostro capo-delegazione, fa fermare il pulmino, scende da solo in autogrill spesso improbabili, e dopo un’attenta perlustrazione, ci permette di entrare. Non sempre è così, naturalmente: spesso gli autogrill sono uguali al resto d’Europa, eccetto il prezzo della benzina che, ad un veloce calcolo del cambio euro-rublo, ci pare essere intorno ai quaranta centesimi al litro.
Ciò che affascina è soprattutto il vasto respiro di questa terra, i suoi spazi, la natura ancora potente alla quale i paesini, gli autogrill, qualche deposito o azienda e ogni altro edificio sembrano strappati solo provvisoriamente, come se le praterie e i boschi, appena l’uomo si distraesse, fossero subito pronti ad inghiottire tutto. Ogni tanto passiamo su un ponte sopra un grande fiume, quasi sempre l’Okà, col cui percorso sinuoso il nostro viaggio si intreccia. Non c’è niente in Italia che possa darci un’idea di cos’è un fiume russo: il nostro maggiore, il Po, qui sarebbe un affluente di mediocre grandezza. Qui i fiumi sono larghi, con maestosa portata d’acqua, rive lontanissime e lussureggianti.
È proprio sull’Okà che compiamo un tratto del nostro tragitto su un battello per raggiungere Tarusa, la città di Marina Cvetaeva, su una collina appollaiata sopra un’ansa del fiume. Durante la lunga traversata Roman, un altro degli amici russi dalla formidabile voce di basso lirico, accende una fantastica sfida di canto con Luca Doninelli a cui ci accodiamo. È un omaggio a noi: in fondo per i russi e per tutto il mondo l’Italia resta pur sempre il paese del bel canto.
Le città che attraversiamo non sono tutte uguali. Un grosso centro dal nome quasi impronunciabile, Mcensk, ha un aspetto decadente e polveroso: la piazza centrale è una spianata di cemento che si sta sbriciolando, la pavimentazione dei portici ha grossi buchi, dietro le case si alza la mole in rovina di una grande chiesa il cui campanile a pezzi è invaso dalle erbacce. E questo è strano, perché la maggior parte delle chiese, anche quelle rase al suolo dai bolscevichi, è già stata riedificata o oggi in ricostruzione, spesso con soldi privati. Tula ha ampi viali e un bel Cremlino ottimamente tenuto, il museo del samovar, la piazza centrale, sterminata, di cemento e deserta, col solito gigante scuro di Lenin, statua che campeggia ancora in molti di questi luoghi, evidentemente meno imbarazzante di Stalin, che è sparito.
La memoria bellica è ancora importante per i russi: uno dei luoghi visitati è il Partizanskaja poljana dalle parti di Brjansk, un immenso museo della guerra partigiana istituito nella foresta dove iniziò la riscossa dei russi che, organizzati in brigate clandestine, respinsero i tedeschi spintisi fin qui durante la seconda guerra mondiale; tedeschi che i russi chiamano indifferentemente “fascisti”, come gli italiani che però qui non giunsero. L’importanza di questa memoria l’abbiamo verificata varie volte, come a Kaluga, città deliziosa, con vie ben tenute, un teatro bello e vivace, un delizioso parco col belvedere. Incontriamo qui una delle tante coppie di sposi che, secondo un’usanza russa, dopo la cerimonia vanno in giro a visitare i luoghi importanti della loro città, portando fiori anche al monumento ai caduti, proprio a testimonianza di quel sentimento patriottico che a due sposi italiani proprio non verrebbe in mente. Noi facciamo loro festa, raccontiamo chi siamo e lo sposo ci dice che andranno in viaggio di nozze in Italia: Roma e Venezia. Il padre della sposa ci invita a posare con loro: lei è alta, bionda, raggiante; mi sia permesso dirlo, la donna più bella che abbia mai visto di persona, esempio perfetto delle donne russe, che sono splendide. Mi sia permesso dirlo.
Talvolta una vasta malinconia sembra attraversare questa terra, la cui grandezza ricorda a chi la vive la propria piccolezza, per contrasto, forse la propria precarietà. Nei piccoli centri la notte è buia. Prima del ritorno definitivo allo splendore di Mosca e poi all’Italia, pernottiamo a Kozel’sk, la cittadina nel cui territorio comunale si trova il grande monastero di Optina-Pustyn. Viene organizzata per noi una cena tradizionale e un coro di sei ottime cantanti russe canta, mentre mangiamo, canzoni popolari.
Poi tiriamo tardi a tavola, e converso di letteratura con Guglielmo Pispisa, uno degli amici della delegazione, romanziere di Messina. L’albergo è fuori città, a due chilometri. Lì, sempre con Gugliemo, Andrea Bajani e Nicola Savoca, scoviamo un biliardo e facciamo notte fonda.
Quando gli amici crollano e si ritirano, ho ancora voglia di Russia: col mio sigaro acceso mi avvio, fuori dall’albergo, verso la città. È buio pesto. I lampioni sono rari. Sfreccia qualche rara auto, come se fosse inseguita chissà da chi. Piove appena un’acqua finissima. Sembra quasi di sentire questa terra grande, il suo respiro, il monastero in lontananza, la piazza deserta, una nostalgia che non è estranea. Quando poche ore dopo, a colazione, racconto di questa passeggiata, Svetlana, una delle nostre guide e interpreti, mi chiede con tono preoccupato: “Ma non hai incontrato gli ubriachi?”. No. Non ho incontrato nessuno, se non me stesso e una terra ai confini del mondo che, come una madre misteriosa, mi ha tenuto nel suo grembo.