Che le poche, ma mirate espressioni di papa Francesco nel suo ancora giovane pontificato abbiano già un valore programmatico, si evince nel modo migliore dalle forti e certamente non indifferenti reazioni che suscitano non solo nei suoi “fan”, ma anche presso i tradizionalisti e conservatori che si dividono in due fazioni: da un lato coloro che dichiarano di non poter giudicare in moralibus e di affermare la dimensione relazionale della verità, non specificando però come si potrebbe ancora affermare la loro “continuità” con posizioni sostenute precedentemente. Dall’altro coloro che ormai sono passati a «rompere il coro cortigiano», come ultimamente ha dichiarato Pietro De Marco, dichiarando il loro dissenso dalle affermazioni del Papa. Tra queste: “Chi sono io per giudicare?“, “Il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso“, “ciascuno di noi ha una sua visione del bene“. 



Questo tipo di affermazioni darebbero adito, pertanto, a un’accusa di relativismo e a una apertura alle logiche delle postmodernità liquida, ambedue atteggiamenti in aperto dissenso con la tradizione millenaria della Chiesa. 

Al centro della loro critica si collocano, oltre a diversi interventi di Francesco e alle ormai note azioni simboliche (dall’abitazione a Santa Marta fino alla visita a Lampedusa), la sua Lettera a chi non crede, indirizzata al fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari il 4 settembre 2013 e alcuni passaggi dell’intervista che il 19 agosto, Francesco ha rilasciato alla rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica.



Una lettura di queste affermazioni e di questi atti simbolici come interventi spontanei e singolari appare riduttivo e fuorviante. È necessario, invece, analizzarli nel loro insieme, per far scaturire un vero e proprio metodo di riflessione dell’attuale Papa che contribuisca a superare l’apparente immediatezza e la semplicità pedagogica di cui spesso è accusato. E questo metodo ha trovato espressione proprio in quella dimensione che, da subito, è stata evidente nel 266° successore di Pietro: la povertà, interpretata, però, non in senso riduttivo come mera povertà reale-materiale ma come un vero e proprio programma di riforma spirituale. 



Il 17 giugno, Francesco ha sottolineato il passaggio «dalla povertà fisica e reale alla povertà intellettuale, che è assolutamente reale»: se la povertà, infatti, rivela la persona, non solo nella sua dimensione reale-fisica, ma anche nel suo aspetto intellettuale e culturale (e sin dall’inizio il Papa aggiunge, nel discorso del 22 marzo, anche “spirituale”), allora la povertà per Francesco è il metodo per riscoprire la persona. 

Una persona che ha bisogno della carità (della carità nella triplicità della sua forma reale-temporale, intellettuale e spirituale-morale, direbbe Rosmini) e che è chiamata a vivere la solidarietà: proprio in questa prospettiva si capisce che il Papa non condanna la ricchezza in quanto tale (perché senza una certa ricchezza materiale, intellettuale-culturale e spirituale-morale, non si potrebbe esercitare la carità nella sua triplice forma). Egli condanna, invece, una ricchezza che impedisce di vedere la persona nell’altro e che, quindi, nega la solidarietà. 

Ciò avviene quando i beni materiali (ma anche un atteggiamento intellettualista, una cultura chiusa, un’autosufficienza spirituale e un’auto-giustizia morale) impediscono di concepire veri rapporti di solidarietà e carità. Il Papa indica, quindi, con il discorso sulla povertà le varie dimensioni di autocentrismo della persona, delle quali ognuno si deve liberare. E siccome attraverso questa modalità, la povertà scopre la persona (come sottolineava Francesco il 6 giugno), tale idea spirituale di povertà non è nient’altro che un sinonimo di libertà: «rendervi liberi, in qualche modo, anche rispetto alla cultura e alla mentalità dalla quale provenite». 

Il messaggio della povertà, in altre parole, è il messaggio di porre, senza se e senza ma, la persona al centro della riflessione. Ciò si evidenzia ulteriormente nel suo discorso alla Fondazione Centesimus Annus pro Pontifice il 25 maggio, quando afferma che «non c’è peggiore povertà materiale […] di quella che non permette di guadagnarsi il pane e che priva della dignità del lavoro»: la peggiore povertà, quindi, è quella che impedisce alla persona di realizzarsi nella sua dignità impedendole di condurre una vita autonoma, autodeterminata e responsabile. 

Se è vero che la posizione della persona come principio centrale e basale della riflessione social-etica della Chiesa è stata definita, con chiarezza, dal Concilio Vaticano II (Gaudium et spes 25), è altrettanto vero che tale principio è stato applicato, prevalentemente, come pretesa cristiana di riforma e miglioramento sociale e civile. Ciò che è stata parziale, invece, è stata l’auto-applicazione di tale principio alle strutture ecclesiastiche e alla vita interiore della Chiesa.

A questo riguardo, ci si potrebbe spingere fino all’affermazione secondo cui la Chiesa, nell’argomentazione sulla società, si avvale del “diritto della persona”, mentre per le questioni interne morali e spirituali ricorre ancora al “diritto naturale”. Nell’intervista a La Civiltà Cattolica del 19 agosto, papa Bergoglio non intende relativizzare le verità, soprattutto morali, del classico “diritto naturale”, ma intende “contestualizzarle” ossia integrarle nel principio della priorità della persona. 

Sorprende con quale consequenzialità Egli pronuncia, in questa intervista, la priorità della persona nell’ermeneutica della povertà, fino all’intimo della vita della Chiesa stessa. Infatti, nella stessa intervista, Francesco descrive la riforma più urgente ribadendo come sia necessario «cominciare dal basso».

Tale passaggio richiede senz’altro alcuni cambiamenti e riforme non indolori per la struttura e per l’autocomprensione della Chiesa istituzionale. E i primi passaggi di questo programma (nuova realizzazione del principio di collegialità e riforma delle strutture curiali) il Papa l’ha delineato il 28 luglio, durante il volo di rientro dalla Giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro. Solo con tale criterio interpretativo, infatti, si comprende come il Papa venuto «da lontano», dell’altro lato dell’oceano, chiese un maggiore rispetto della libertà di coscienza e di religione anche all’interno della stessa vita religioso-cristiana (“Chi sono io per giudicare?“, “Il proselitismo è una solenne sciocchezza“). Papa Francesco segue la linea più radicale della dottrina sociale della Chiesa, ossia evidenzia come la Chiesa può esercitare la sua importante e necessaria funzione di istanza morale, esempio e coscienza critica soltanto se si riforma dal di dentro in chiave spirituale, riscoprendo e applicando le dimensioni più radicali della prospettiva cristiana della persona. 

In nessun modo, quindi, si tratta di una relativizzazione della verità in quanto tale. Soltanto una lettura delle affermazioni e delle azioni del nuovo Papa nella luce interpretativa di una radicalizzazione della dottrina sociale della Chiesa può aiutare a comprendere che cosa egli intendeva con l’affermazione della “relazionalità” della verità. Tale dimensione deve necessariamente contraddire la posizione classica dell’assolutezza della verità metafisico-trascendente qualora la verità venga intesa in chiave teoretica, come una serie di affermazioni di contenuti chiaramente e distintamente definibili con la ragione umana astratta, non esistenzialmente concepita. In tale prospettiva, il “diritto” della verità supera e precede evidentemente il “diritto” della libertà, ossia dell’individuo, di poter decidere, non secondo una verità definita, ma in coscienza. 

Ora, il Concilio Vaticano II, soprattutto con la Dichiarazione Dignitatis humanae, ha affermato che, proprio all’interno della dottrina sociale della Chiesa, tale relazione si inverte: un ambito sociale definito come “libero” si basa sulla priorità del “diritto” della libertà a quello della “verità”, e questo non significa affermazione di relativismo, perché la verità principale, ora, non sono frasi oggettivamente definibili, ma la persona stessa. Questo è il principio di qualsiasi società libera alla quale la tradizione del cristianesimo con l’idea della dignità della persona fornisce una giustificazione etico-morale. 

Dopo il Concilio tale principio si è affermato in relazione alla riflessione sulla società e sullo Stato; quindi la Chiesa al suo interno ha ampiamente mantenuto il principio di “verità”, ritenendo che per le questioni morali e religiose non potesse vigere lo stesso principio che vigeva all’interno della società civile, fondata sui diritti liberal-individuali.

Ora, sembra che Francesco segua questa logica: se il rapporto di ogni cristiano con Dio non è quello di una verità astratta ma si basa su una relazione personale in coscienza («io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione!»), ciò non significa relativizzare la verità, ma declinarla e viverla in chiave personale. 

Frequentissimi, infatti, sono i suoi avvertimenti, spesso durante le omelie, contro il «cristianesimo a metà» o «di salotto», che significano un chiaro distanziamento da qualsiasi posizione relativista o liquida. Per il Papa è fondamentale che le strutture della Chiesa debbano essere strutturate secondo la logica della verità personale, quindi secondo un’idea morale-religiosa di libertà e non secondo il concetto della verità formale-assoluta. Se il nuovo Papa procede a una rigorosa applicazione di questo principio anche all’interno della Chiesa, necessariamente deve suscitare prima o poi delle resistenze paragonabili a quelle che suscitò lo stesso decreto Dignitatis humanae.

Con questo principio, però, papa Francesco segue in fondo un programma che fu definito già dal Beato Antonio Rosmini 150 anni fa, ossia che una vera e propria riforma della società, che non rimanga alla superficie ma che vada fino nei capillari spirituali del suo tessuto umano, debba iniziare con la riforma della Chiesa. Lo stesso Rosmini, pertanto, richiedeva dalla Chiesa delle riforme più rigide e più conseguenti di quanto le prevedeva per la società civile. E proprio questo, egli lo interpretava come l’applicazione più conseguente degli stessi principi che oggi sono riassunti nella dottrina sociale della Chiesa.

Detto questo, l’auspicio è una rilettura delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa del beato roveretano proprio alla luce del pensiero di Papa Francesco.

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