Lo scoraggiamento ed anche il cinismo nascono, nella società in cui viviamo, non tanto dalla fatica e dall’incertezza, ma dall’assenza di prospettiva, dall’assenza di futuro, cioè di significato. Anche l’aggrapparsi alla memoria del tempo passato è vissuto, per gli anziani come per i giovani, quasi sempre come solo difensivo e cioè come mortifero.



D’altra parte noi uomini non possiamo vivere senza il desiderio e senza la promessa di un’unità, con noi stessi e con i nostri simili, anche se tale unità sembra irrealizzabile.

In questo dislivello, sorta di frattura irrisolta in cui l’umano si costituisce e si mantiene, operano la coscienza religiosa oppure la coscienza dell’ateo. Opera anche la sempre coraggiosa, talvolta umile, domanda del filosofo.



Hegel, il grande pensatore romantico tedesco dei primi dell’Ottocento, questa domanda umile e coraggiosa l’ha posta. Dove sta l’originalità di tale domanda e in che modo essa può soccorrere gli uomini e le donne di oggi?

L’originalità di tale domanda pesca nella grande tradizione di Platone e dell’anima greca, ma anche e radicalmente, nella tradizione ebraico-cristiana. Questa ultima tradizione, anche sull’onda della prima, afferma che l’individuo umano è in grado di trasmettere ciò che non ha. Ciò avviene paradossalmente, ma implacabilmente, perché qualcosa che non si possiede, un “non possesso” è in azione nei discorsi e negli atti degli uomini.



Il desiderio, e dunque la coscienza e il giudizio, sono infatti suscitati da ciò che manca.  La mancanza, alla radice, non è un avere di meno, mancare di questo o di quello, ma è un essere attirati. Piuttosto, semmai, è mancare, come si dice: “mancare un colpo”. C’è una mancanza che esprime, che innesca l’alterità.   

L’altro mi suscita, mi genera ed io, a mia volta, lo suscito. L’umano esiste tutto fatto di alterità: senza l’altro, senza altri io mi distruggo, non sarei quello che sono. Perciò il desiderio, la mancanza, e ciò che essi implicano, cioè il non, il negativo, non sono distruttivi (nichilismo non significa mancanza e negatività, ma sfiducia nell’altro e nella ragione).

Ciò significa che il desiderio e l’ambizione dell’uomo, autenticamente intesi, non vanno nella direzione di un tutto pieno, di una rassicurazione, di un fondamento. Mancanza di fondamento significa che il fondamento, un fondamento, può avere solo la struttura di un sì, un dire di sì. L’atteggiamento critico alla radice del “filosofico” è un arrendersi razionale, un dire di sì, cioè l’atto di accogliere, di accettare un non mio, di essere tramite di un non mio.

Questo è ciò che Hegel e la tradizione ebraico-cristiana intendono per libertà. Quando il filosofo tedesco, nella Fenomenologia dello spirito, parla di “calvario dello Spirito assoluto” non intende usare una metafora, come generalmente si ritiene. Hegel intende invece riferirsi all’umana avventura, che nel linguaggio romantico ottocentesco si chiama “spirito”. Lo spirito, fuor di metafora, è lo spezzarsi dell’umana coscienza, che è fatica, dolore, ma anche la grazia di una storia.  

Forse in questa ottica si può cominciare a capire qualcosa del senso delle affermazioni hegeliane secondo cui la verità è una storia e l’etica è una storia, di contro alla mentalità in cui siamo immersi. Secondo questa mentalità ci è invece prescritto di riposare nell’attuale possesso e nella attuale pretesa di una legge come dominio. “Legge come dominio” oggi concretamente vuol dire controllo dei mercati e procedure giuridiche, gestionali, cliniche, molto rassicuranti nonostante le frequenti imbecillità.

Accettare la storia, accettare la verità come storia, accettare l’etica come storia è un rischio cui l’essere umano oggi non è più attrezzato. Libertà è il nome di questo rischio. Non si tratta di riposare su garanzie: i nessi fra problemi, le contraddizioni, le speranze implicano non una rassicurazione protettiva e di controllo, ma un sì, il rischio e la benedizione di un sì.

Alla fine del capitolo sesto della Fenomenologia dello spirito, dopo una lunga estenuante carrellata lungo la vicenda dell’epoca moderna, prima e dopo la Rivoluzione francese, dopo aver misurato devastazioni, ambiguità e tradimenti nel farsi storico dell’essere umano, Hegel vagheggia una unificazione, una conciliazione (Vorsoenung) che non è utopia, ma il concreto, tragico guardare in faccia e accettare questo volto inevitabile dell’umano.

Questo guardare in faccia e accettare il volto dell’altro ove esso si presenti nella sua irriducibile malvagità sembra non essere una capacità dell’umano. Il perdono sarebbe la parola adatta ad esprimere questa esperienza: l’atto in grado di ricucire, riunificare quello che in nessun modo sembra riunificabile. 

La cultura odierna è generosa, direi quasi esigente sul perdono. Mi chiedo se ciò sia possibile a causa di una censura sulla natura dell’atto di perdonare, che nella mentalità odierna sembra porsi come un necessario dimenticare per evitare la distruzione di tutti. Ma la potenza del pensiero di Hegel non si fa incapsulare in questo pur comprensibile e fragile semplicismo. Io e l’altro, per Hegel, siamo generati insieme, apparteniamo ad movimento sorgivo che ci accomuna, nel bene e nell’abiezione. 

Il perdono, se ve ne è uno, alla lettera, consiste nel fatto che io possa essere trascinato, possa condividere l’origine, il luogo del male dell’altro. Il male è nel discorso, non è solo una furia distruttrice, è nella natura e nella struttura del discorso. 

Tuttavia quello scatto di discorso che è il perdono, rivela il male, curiosamente e abissalmente, come il rapporto fra due nulla.

Il primo nulla è io che presumo avere il potere di essere e di giudicare (“la singolarità che sa se stessa come essente”). Il secondo nulla è “quell’universale come l’irreale che è soltanto per altri”: cioè posso perdonare quando comprendo che l’altro, per un aspetto radicale, non è padrone del proprio male. Questa operazione, che è reciproca anche se l’altro non fosse d’accordo, implica, strutturalmente e razionalmente, l’intervento di un Dio trascendente.

Il Sì di Dio (lo Spirito assoluto) si frappone e custodisce il sì dell’uomo. Perdono e riconciliazione implicano un atto di Dio.

La tragedia rimane tragedia, ma è possibile consentire ad uno spostamento di discorso che eccede la portata del proprio sapere e del proprio volere, che rimangono per altro, essi, i fattori in gioco.


Prologos invita al Seminario dal titolo “Hegel e la generazione del significato” che si terrà a Milano presso ICLeS, via Settembrini n. 17, venerdì 8 novembre 2013 alle ore 16.30. Parla Gianfranco Dalmasso (Università di Bergamo), presiede Vincenzo Costa (Università del Molise).