“Siamo nominati da tutto ciò che abbiamo conosciuto e fatto”. Così affermano lo scrittore israeliano Amos Oz e la figlia Fania, storica delle idee e del pensiero politico, nelle ultime pagine del loro libro Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica (Feltrinelli 2013). La testimonianza concerne un argomento cruciale: la trasmissione del sapere alle nuove generazioni. E da simile prospettiva il modello ebraico, poggiante sulla “necessità di insegnare ai giovani e inculcare in loro le tradizioni e i costumi del proprio popolo” (M. Kaplan), definisce un paradigma che, anche al di fuori dei confini di Israele, potrebbe valere come termine di confronto.
La coppia formata da insegnante e allievo costituisce un pilastro della storia ebraica, a partire dal sacerdote Eli e dal suo discepolo Samuele: dai tempi di Mosè si afferma un concetto di nazione imperniato sulla memoria. Nell’Antico Testamento, e poi nel Talmud, Dio è rappresentato come genitore di tutti i suoi figli, e, al tempo stesso, come esigente e rigoroso maestro. Derivandone, lungo i secoli, l’applicazione allo studio e all’interpretazione delle Scritture come forma di costruzione del sé, e come gesto d’amore. Perché studiare? La risposta di rabbi Yochanan ben Zacchai (I sec. d.C.) non ha perduto il suo fascino: “Per arricchire coloro che mi amano e riempire i loro scrigni”.
Una progenie acculturata è la chiave della sopravvivenza collettiva; la nota di Amos e Fania Oz induce a riflettere sull’obiettivo originario della scuola, quale luogo di salvaguardia di una sapienza che, di mano in mano, si tramandi intatta, senza che il dibattito e l’aggiornamento, pur necessari, ne mettano in discussione il nucleo basilare. Esso costituisce l’autentico “santuario”, familiare e collettivo, di un sapere “per sempre”, che assicura quel “latte” verbale che conferisce al ruolo genitoriale un risvolto professorale unico. L’alimento che fa di noi quello che siamo possiede l’impronta formativa di una biblioteca, per cui “la tradizione ebraica […] non trova nulla di angelico nel bambino incolto”, nulla di magico nella sua ignoranza. Al contrario, leggere, studiare e interrogare in profondità anche i minimi dettagli della vita umana viene considerato un autentico atto di fede.
Il culto della memoria è la pietra filosofale dell’ebraismo; ed esso si realizza, a partire dal racconto dell’Esodo, nella forma del dialogo tra padri e figli, tra maestri e allievi. Nessuna domanda è troppo semplice, o troppo ottusa, per non meritare una risposta. La lettura incessante degli stessi libri, e l’esposizione sistematica (tra fede e stupore) all’assoluta bellezza e potenza della letteratura biblica, sono così diventati, e restano, il contrassegno di ogni nuova generazione.
E a ciò, secondo Amos e Fania Oz, si collegano i tratti più tipici dell’ebraismo di ogni età, in base ai quali la lotta per la sopravvivenza e l’impegno intellettuale, la cura della mente e del cuore, procedono insieme.
Dal II capitolo del libro si può estrarre questa considerazione: “Dalla matriarca Sara alla donna in carriera di oggi, mettere al mondo e allevare figli è sempre stata non tanto un’occupazione quanto un’ossessione ebraica”. Vivere è, anche, conservare e narrare la propria storia. Per gli israeliti è fondamentale raccontare (e raccontarsi) tutto, con sincerità: anche il delitto e il castigo, la catastrofe e la fuga. Le parole che Dio rivolge ad Abramo – “crescete e moltiplicatevi” – impongono di ricordare, e di generare per ricordare. Ci viene consegnato il modello di una madre al contempo pia ed esigente, che offre ai propri figli, con l’affetto, un esempio di erudizione e uno sprone all’eccellenza. Senso pratico e disciplina stanno in sottile equilibrio. La storia di Anna, presentata nel primo Libro di Samuele, “ha la straziante doppiezza di tanti genitori ebrei in futuro: mio figlio non è soltanto figlio mio, appartiene a Dio – o, anche senza Dio, allo studio –, devo rinunciare a lui in un senso profondo e cruciale, e in tenerissima età”.
Camminare in avanti senza smettere di guardare indietro, è una raccomandazione condivisa da molte civiltà; qui, a p. 125, se ne specifica la ragione: perché soltanto l’esercizio della memoria (ovvero: la fede radicale e indiscussa in un corpus di pura, eterna verità) rende il futuro meno opaco, e fornisce all’uomo di ogni oggi il nucleo, ancora incandescente, di una sapienza immortale. Beninteso: benché la Torah sia di per sé “completa ed eterna” e noi si viva accerchiati da una biblioteca sterminata, a cui hanno contribuito le menti più formidabili della storia, l’educazione non può ridursi a mera e passiva ripetizione. L’obbedienza comporta il dovere dell’originalità, della ricerca instancabile e militante.
Ogni anima è un mondo intero; perciò ogni vita è santa, irripetibile e insostituibile, e ognuno può dire: per me è stato creato il mondo. Di queste due idee, fra loro fortemente connesse, sono mostrate le radici nei libri dell’Antico Testamento. Al fondo palpita la convinzione che un individuo è tale soltanto se non si riduce a un’isola, ma riconosce (e ricorda) i suoi testi, i suoi padri. Siamo, e saremo, i libri che abbiamo conosciuto, e le nostre idee ne saranno la progenie. Questo, in fondo, vuol dire crescere. È una questione di responsabilità, e di scelta: quali nomi e libri salvare sull’arca dal diluvio dell’oblio?
Non è la questione, oggi, al cuore del travaglio di ogni scuola, famiglia, università…?