L’ho incontrato la prima volta in una calda estate del 2000 a Santa Teresa di Gallura – sua residenza estiva da romano che amava il mare, forsanche per le sue origini campidanesi –, complice un contatto casualmente ottenuto da mia moglie presso l’edicolante della piazzetta del centro gallurese. Avvertivo la classica curiosità di chi vede per la prima volta una persona già conosciuta attraverso i suoi scritti; lui mi è venuto incontro dalla porta della sua villettina sul mare in bermuda, spiegandomi un largo sorriso mentre mi porgeva alcuni suoi articoli sul Card. Giuseppe Siri: “Non mi chiami ‘professore’ – mi ha subito raccomandato –, non lo sono, tutti qui a Santa Teresa mi chiamano così, e non ci posso far nulla…”.



Benny Lai era allora già piuttosto avanti negli anni, ancora alto e solenne nello sguardo e nell’incedere; capì subito che non avevo davanti però un giornalista in pensione dedito a raccattare vecchi pezzi per nostalgiche collettanee autocelebrative, ma uno – come si dice in gergo – ancora “sul pezzo”, pieno di domande, curioso di conoscere da uno studioso ancora in erba come il sottoscritto così ci fosse di nuovo, d’illuminante tra le carte dell’archivio del porporato di Genova, di cui lui peraltro era stato per decenni grande amico e confidente.



La mia conoscenza di Lai, da quel momento in avanti – fatta di frequentazioni vacanziere, qualche incontro pubblico romano e soprattutto meravigliose cene in qualche localino nei pressi di San Pietro dove ci si raccontava il “Vaticano” come lui lo aveva conosciuto, criticato e comunque sempre amato – è stato uno straordinario cammino a ritroso nella storia della Chiesa della seconda metà del Novecento, di cui Benny è stato a un tempo cantore, fustigatore, osservatore comunque sempre acuto e documentato.

Quando Benny Lai entrava in sala stampa vaticana, era come se stesse passando un eminente cardinale laico (figura desueta nella Chiesa contemporanea, eppure da qualcuno ancor oggi evocata): tutti gli andavano incontro, lo seguivano, a domandargli novità su questo o quel caso discusso di prete e di monsignore, e soprattutto cosa stesse facendo il papa, se fosse in salute, come governasse. Perché di papi soprattutto Lai si è interessato nella sua lunghissima carriera di giornalista e saggista, affascinato da quello che ai suoi occhi dovette sempre apparire come uno strano connubio (ne sono quasi certo, alla fine illuminato dalla conversione, pur nella tribolazione della malattia) tra una non tramontata dimensione temporale e il primato spirituale della sede petrina. 



Lai fu sì un giornalista, sempre professionale, autorevole, talvolta discusso ma mai discutibile – tutti i suoi colleghi, e in particolare qualche suo allievo si affrettano oggi a definirlo l’inventore della professione di “vaticanista”, anche se lui onestamente riconobbe sempre tale merito all’indimenticato maestro Silvio Negro – ma, come ebbe a dire non molti anni  or sono Andrea Riccardi in un incontro all’Istituto Sturzo, fu vero storico, perché del mestiere codificato da Marc Bloch nell’Apologie de l’Histoire era consapevole e autentico seguace, pur senza riconoscimenti accademici. Sempre attento alle fonti e alla loro provenienza, astuto indagatore di testimonianze inedite (un vero scout d’informazioni, si direbbe oggi), ma anche capace d’interpretazioni di respiro che oltrepassavano i margini disciplinari della storia della Chiesa e toccavano la storia politica tout court, Lai apparteneva a quella vecchia scuola italiana, d’ispirazione montanelliana – e per la storiografia cattolica delucana –, che alle facili interpretazioni ritagliate in alcuni casi anche su documenti ad hoc o addirittura resi tali, preferiva uno scavo paziente e lo stupore di chi alle fonti si affida sempre e comunque nella ricerca della verità.

Il suo era uno stile intellettuale disincantato, senza patinature, mi ricordava una sorta di versione culturale e mediatica di quell’atteggiamento di cinismo politico del “romano de Roma”, storicamente sottomesso a tante corti, incarnato da Alberto Sordi in alcune sue indimenticabili commedie. Denunziava il fatto, non condannava mai il colpevole, in fondo gli si sentiva un po’ vicino nelle debolezze umane, e fu attraverso quest’onestà di pensiero che poté affrontare nel tempo argomenti spinosi come recentemente, ad esempio, quello della gestione delle finanze vaticane.

Sembra paradossale scrivere oggi di uno dei maggiori cronisti del mondo ecclesiastico di sempre, ricordando la sua formazione eminentemente laica, la sua professione per lunghi decenni esercitata su testate quali la Gazzetta del Popolo, La Nazione, il Resto del Carlino, e poi a quel laboratorio liberale, lezione oggi nella storia del giornalismo, che fu Il Giornale di Indro Montanelli. Eppure uno dei maggiori cardinali del Novecento, Giuseppe Siri, volle proprio lui come confidente e anche per certi versi, output comunicativo. Raccontare qui la storia dell’amicizia tra Siri e Lai, da alcuni ammirata, da altri avversata forse anche con punte d’invidia, non è possibile; ma sarà un giorno da fare, se si vorrà comprendere pienamente la trasformazione dei meccanismi di narrazione della Chiesa, in particolare della curia romana, la sua nuova considerazione presso i media postconciliari, il passaggio dal tradizionale “apostolato della stampa” di matrice tardo ottocentesca al modello della comunicazione globale di Giovanni Paolo II.

Nel 1961 uscì la prima opera del giornalista Lai, il saggio per Longanesi – altro editore del tutto laico – Vaticano sottovoce, e già dal titolo s’intravedeva l’esigenza di raccontare una prospettiva diversa, meno ufficiale e ufficializzata, più intima; qualcuno direbbe, più chiacchierata nei corridoi delle “segrete stanze”, ma Benny non fu mai pettegolo per il gusto di esserlo: si trattava di parlare di uomini (di Chiesa), delle loro scelte, delle loro alte responsabilità, perché la gente capisse. Mentre l’Italia e il mondo intero si avviavano a una fase di grandi sconvolgimenti, anche morali, al Sessantotto della contestazione, nonostante il ciclopico impegno della Chiesa cattolica di rinnovarsi attraverso il Concilio Vaticano II, questo laico cantore di ecclesiastiche gesta cercava, alla fine, di avvicinare il profilo del Papa, degli alti porporati, dei vescovi di curia e delle diocesi alla sensibilità popolare, persino di farli amare pure nelle loro debolezze, ma anche nei grandi squarci di visione politico sociale che in quegli anni alcuni di loro ebbero, mi si consenta, profeticamente.

Sono riuscito a far tornare un’ultima volta Benny Lai nella terra d’origine della sua famiglia (credo abbia là ancora un fratello), pochi anni fa. Presentava un mio libro su un fondatore sardo laico e sposato, Evaristo Madeddu, piuttosto avversato da alcuni uomini di Chiesa; come talvolta gli capitava, aprì l’intervento rivolgendosi all’arcivescovo di Oristano presente – peraltro un teologo intellettualmente indiscusso come mons. Ignazio Sanna, già pro-rettore della Pontificia Università del Laterano – con il suo franco e rispettoso apostrofo: “Perdoni Eccellenza, ma quel che devo dire, lo dico, la Chiesa qui ha sbagliato…”. 

Se qualcuno volesse farsi un’idea più precisa del Lai saggista, storico, del suo pensiero sulla Chiesa e sulla società italiane, potrà attingere riccamente dal suo volume forse maggiormente compiuto, che non a caso, ha un titolo illuminante: Il mio Vaticano (Rubbettino 2006), che ebbi l’occasione a suo tempo di presentare con Giulio Andreotti e Andrea Riccardi. 

Davvero, caro Benny, il Vaticano è stato un po’ tuo, e così tu l’hai sempre voluto considerare e raccontare. Anzi, l’hai fatto un po’ nostro, e perlomeno di questo, credo, dobbiamo esserti grati.