Da centosettant’anni la fotografia è la tecnica principalmente delegata nella nostra società alla produzione di immagini. Una certa quota dei miliardi di immagini che si producono ogni anno si può dire bella, per originalità di inquadratura, costruzione formale, capacità di produrre sentimenti o svelare verità inaspettate. Alcune sono arte, condividendo tutta la difficoltà di definizione che il mondo contemporaneo ha costruito nei confronti di questo concetto. Altre documentano la cronaca e forniscono al giornalismo un contributo essenziale. Poche, pochissime però diventano “immagini simbolo”, sono capaci di restare impresse nella memoria collettiva: Lenin che si sporge dal palco, tutto storto, i marines che issano la bandiera americana sul monte Suribachi, il miliziano di Capa nella guerra di Spagna, Marylin con la gonna sollevata dall’aria che esce da una grata. 



La foto scattata da Paolo Pedrizzetti alle 15.37 del 14 maggio 1977 in Via De Amicis a Milano rientra fra queste foto simbolo, almeno per quel che riguarda la coscienza collettiva di una certa generazione italiana. Fu allora, anche per mezzo di quella foto, che l’opinione pubblica scoprì quel che non voleva vedere, anche se era da tempo evidente agli osservatori attenti: che le Brigate Rosse non erano affatto isolate, che esisteva una zona di illegalità di massa, che quest’area non era affatto innocua e “creativa”, come pretendeva, che non era sottoposta a una ottusa “repressione” poliziesca, ma aveva scelto la via della violenza armata, che ne facevano parte rampolli della buona borghesia molto più cinici e pericolosi dei loro fratelli maggiori sessantottini. Era iniziato il periodo più terribile per la società italiana, quello che si sarebbe concluso con l’omicidio di Aldo Moro e che avrebbe inferto delle ferite profonde nel corpo sociale, ancora oggi non del tutto rimarginate.



Tutto questo si vedeva in quella foto: un angolo di Milano vicinissimo all’Università Cattolica, a due passi dalle belle case di uno dei quartieri più borghesi della città, un ragazzo sta al centro della strada con buoni jeans a zampa di elefante, scarpe lucide, giacca, indossando anche guanti e un passamontagna nell’illusione di non farsi riconoscere. È una posa molto cinematografica, che sembra studiata: le due gambe large è un po’ flesse, il sedere indietro e il torso inclinato in avanti a fare linea con le braccia e la pistola (un’arma non grande né pesante, la mitica P38) tenuta lontana con le due mani, sulla linea di mira. In un’altra immagine della serie vediamo ancora il pistolero, chiamiamolo pure col suo nome, Giuseppe Memeo, uno che poi finì con Cesare Battisti ad ammazzare il gioielliere Torregiani: ha appoggiato un ginocchio a terra per sparare meglio, sempre secondo un modello cinematografico assai insensato, perché i poliziotti contro cui spara sono tutti in gruppo, lontani parecchie decine di metri, non c’è nessun bisogno di mirare. 



Uno di loro a caso, l’agente Antonio Custra, fu ucciso da uno di quelli spari, a quanto pare non da quelli di Memeo. Perché erano in tanti con le armi a quella manifestazione: per esempio quell’Azzolini che ha fatto carriera ed è oggi capo di gabinetto del vicesindaco di Milano, Marco Barbone che poi ammazzò Tobagi, Mario Ferrandi.

Perché la prima foto, quella col pistolero in posa è diventata un simbolo? È una bella foto con il soggetto bene isolato in centro, proprio nel momento dell’azione e sullo sfondo però altri armati con passamontagna, fotografi nascosti dietro i tronchi degli alberi, il corteo poco lontano, una cinquecento che indica la normalità perduta. Si vede che il terrorista è un ragazzo, che il contesto non è né di guerra né di guerra civile, come ancora farneticano alcuni, ma si tratta di una violenza a tradimento, l’emergere ingiustificato di una volontà assassina a suo modo astratta. Il pistolero se ne sta in mezzo alla strada, non si protegge, è abbastanza sicuro che nessuno risponderà al suo fuoco. Non corre, prende con calma la sua posa plastica. È solo, c’è il vuoto attorno a lui come intorno agli altri terroristi in erba che si vedono sullo sfondo. Non ha volto, due fosse nere al posto degli occhi e un naso dritto e sottile. Appare determinato e insieme impaurito, tiene lontano quella pistola come se potesse scottarlo. È molto giovane. Ti viene da chiedere chi ce l’ha mandato, in quella strada con quell’arma, che rapporto ha quel gesto con un paese che ne sarà soprattutto impaurito, con le mitiche masse popolari che sono lontane, con la rivoluzione mondiale tanto invocata che per fortuna non si è mai manifestata. C’è qualcosa di onirico nella nitida assurdità di quel gesto omicida ritratto nella foto: è l’immagine di un incubo, per il ragazzo, per il paese, per il povero poliziotto ammazzato. E forse questo rende grande la foto: aver documentato la violenza e insieme mostrato la sua insensatezza.