Il libro di Pier Luigi Celli “Alma Matrigna. L’Università del disincanto”, Imprimatur Editore, Reggio Emilia 2013 , pp.153, è un piccolo capolavoro che ha la leggerezza e la profondità insieme dell’opera autobiografica, dell’opera narrativa e del saggio di impegno civile. Celli si è occupato tutta la vita di anime, ossia di direzione del personale secondo quell’impronta precipua del personalismo cristiano, proprio di Adriano Olivetti e che ha avuto ed ha ancora pochi testimoni nel tempo, tra cui il sottoscritto. 



Le anime conducono anche ad occuparsi e a creare l’anima dell’impresa. Infatti, come è noto, le imprese muoiono quando muore la loro anima, ossia quando il grado di sofferenza delle persone è tale che perdono di vista le loro finalità ultime e quelle secondarie, precipitando nell’entropia. Con un tono e un tocco autobiografico, a tratti commovente, Celli racconta dapprima dell’inaspettato dono che la vita gli offre: occuparsi come direttore generale di una famosissima università privata non milanese. E poi di come da codesta università in poche ore sia stato cacciato senza neppure, dice, “guardarlo negli occhi”. 



Celli si accinge a quel compito con la passione di colui che vede apparire dinanzi a sé il miraggio di un’impresa fatta di creature in attesa del lavoro e che secondo Celli dovrebbero divenire la prima missione di codesta università, che invece sin dall’inizio non fa che procurargli il dolore d’esser dominata non tanto da questa sua missione, quanto da quella del conformismo accademico. Tale conformismo è bene illustrato dalla parte letteraria del libro, dove brevissime novelle o racconti brevi, brevissimi, descrivono i tic, le bassezze, le follie del peristaltico comporsi della vita dei professori universitari, tribù che Celli non solo non apprezza ma che reputa colpevole del fallimento di quella missione comunitaria che egli voleva inverare. 



Ci sono pagine molto felici nella divinazione di quello che Celli definisce il sapere esperienziale che un’università dovrebbe dare ai giovani. Ossia un sapere che, mentre è pluridsciplinare quale che sia la specializzazione scelta, è anche nutrito di esperienze lavorative che dovrebbero far parte dello stesso curriculum studiorum del giovane che va così formandosi. Mentre invece, come sappiamo bene, appena dismettiamo le lenti dell’ideologia o della difesa del particulare, il percorso che si costruisce allo studente nell’università è scandito non tanto da un disegno pedagogico proteso alla junghiana individuazione, quanto dalle regole tribali delle appartenenze disciplinari dei professori e del clima di vassallaggio che lo sovradetermina. 

Celli non cade in generalizzazioni. Nel finire del suo leggibilissimo testo ringrazia non solo i suoi dipendenti ma anche quei professori che per otto anni hanno condiviso la sua utopia. 

C’è salvezza, dunque. Una salvezza su cui a mio parere Celli dovrà ancora esercitarsi guardando questa volta al dolore e all’infelicità anche dei professori che vorrebbero un’università certo pedagogica, ma che pedagogica è proprio perché esalta con lo studente la ricerca e fornisce ai professori tutti i mezzi per poterla condurre a termine.

Il sapere esperienziale e l’utopia di una teodicea che ci salvi dalle bassezze dell’umano o è di tutti o non è di nessuno. Del resto Montaigne, che Celli cita nei suoi incipit sulle teste che devono essere ben fatte piuttosto che piene vale per tutti, nessuno escluso.

Per quel ci riguarda, siamo con Celli perché siamo con Montaigne.