Il 4 dicembre 1563 si chiudevano a Trento i lavori del Concilio che ha contribuito in modo decisivo a segnare il volto del cattolicesimo di tutta l’età moderna. Per comprendere la reale portata trasformatrice del concilio tridentino, oggi è sempre più necessario partire da lontano. Non tutto sbocciò improvvisamente a Trento, e non è solo da Trento che è stato determinato il rinnovamento generale del cattolicesimo della prima età moderna. Le premesse teologiche, ecclesiologiche, giuridico-politiche del disegno che il concilio mise a punto si ricollegano a un vasto cantiere collettivo di elaborazione delle idee e di riflessione sulle esperienze storiche dell’uomo europeo, che aveva cominciato a mettersi in azione molto prima dell’esplosione della Riforma protestante e prima, ugualmente, delle complesse trattative politico-diplomatiche che portarono alla convocazione della prima sessione del concilio. 



La cristianità medievale si stava frammentando sempre di più. Si imponevano i nuovi centri di potere degli Stati territoriali. La ricerca intellettuale, mettendo in relazione scienze sacre, ragione filosofica e tradizione umanistica del classicismo cristianizzato, imponeva di dare nuovi sbocchi al modo di coniugare la proposta della fede cristiana con la mente, i bisogni e gli interessi di una società che cominciava, in mezzo a tutti i suoi limiti, a rendersi moderna. Le spinte di cambiamento venivano da lontano. Operavano in sensi anche molto diversi. Ma non potevano essere eluse. Trento le rilanciò, interpretandole a modo suo. E da allora si inserì, con il lascito della sua eredità, in una ulteriore fase evolutiva, dilatata su tempi molto lunghi, che dalle fratture e dagli scontri del pieno Cinquecento si è estesa fino a un passato molto recente, incorporando lungo la strada una quantità notevole di specificazioni, di ripensamenti, di aggiunte e correzioni, generati da un ventaglio di tanti attori e di tante forze diversi. 



Lentamente, parzialmente, con tante marce indietro e cambi di rotta, non solo il paesaggio religioso, ma l’intero tessuto della società cristiana dell’Occidente latino ha subìto l’influsso di una concezione organica dei rapporti tra Chiesa cattolica e mondo moderno, che ha avuto nel patrimonio del concilio e nella sua memoria storica uno dei fulcri significativi di riferimento. Mi sembra questo il nucleo più interessante della proposta di rilettura portata avanti con costanza e impegno da Paolo Prodi in lunghi anni di ricerca secondo un’impostazione originale e spesso innovativa, ribadita ancora nel recente suo volume riassuntivo sul Paradigma tridentino, riconosciuto a tutti gli effetti sigla identitaria di una vera e propria «epoca della storia della Chiesa» (così recita il sottotitolo), esauritasi solo nel cuore dell’ultimo Novecento. 



Al di là delle opinioni che si possono avere su ogni singola deduzione che Prodi trae dalla sua visione di ampio respiro, resta la piena legittimità di interrogarsi ancora a fondo su quanto il concilio di Trento abbia trascinato con sé con le onde lunghe del suo influsso articolato sulla Chiesa, sulla società e sulla natura del potere.

In sede storica, come ha richiamato un altro maestro della ricerca internazionale sul mondo del cattolicesimo moderno, John O’ Malley, è decisivo «dare un nome» a ciò che si cerca di ricostruire. Il «nome» definisce l’oggetto. Lo fa emergere dall’indistinto, consente di riconoscerne i tratti, di percorrerne i lineamenti. Suscita il desiderio di dare unità a una serie di elementi molteplici che si incontrano lungo il processo della conoscenza, fa cogliere le connessioni nascoste. «Non si tratta di speculazioni oziose su semplici parole» − come si ricorda nell’introduzione a Trento e “dintorni” − perché le parole-guida, gravide di potenza interpretativa, «sono spesso espressione stenografica di un’ideologia e di un mito». 

Sui nomi da usare per orientare la messa in ordine dei significati, delle linee di tendenza, dei flussi fondamentali che hanno segnato la storia del cristianesimo moderno si è discusso a lungo, e a volte animatamente, nel recente passato. Riforma o restaurazione cattolica, Controriforma, riforma tridentina, rinnovamento cattolico: quello che è essenziale, al di là della pura terminologia esteriore, è prendere posizione sulla questione se la prima età moderna sia stata attraversata, o no, da processi incisivi, diffusi e profondi, di trasformazione della coscienza religiosa cattolica; se questi processi siano stati di carattere involutivo o non, piuttosto, di spalancamento a nuovi orizzonti, in senso costruttivo e di potenziamento dinamico; e se questi mutamenti, infine, siano in qualche modo riconducibili a un debito accumulato anche, sia pure non in modo esclusivo, con l’evento del concilio di Trento e i suoi effetti di breve così come di lunga durata.

Lo scenario cattolico della più matura età barocca e del Settecento dei lumi difficilmente può essere sfigurato fino a immaginarlo come una sorta di replica camuffata delle sue lontane radici tardomedievali e rinascimentali. Ciò comporterebbe l’amputazione vistosa di aspetti fondamentali di ciò che ha contribuito a forgiare l’identità dei nostri «tempi moderni». Certo, questo cattolicesimo rinnovato, e dunque anche “riscritto” o reinterpretato, questo cattolicesimo dell’Europa di antico regime non può più essere visto − vengo così all’ultimo punto che volevo suggerire − come un blocco monolitico: non è il banale riflesso del modello tridentino, e basta. Il «cattolicesimo dell’età moderna» (come lo chiama O’Malley) è un cattolicesimo rimasto intimamente “plurale”: non rigidamente “disciplinato” a senso unico, sotto la maglia costrittiva del diritto canonico positivo e della teologia morale colpevolizzante.

Tribunali, confessionali e stati delle anime non sono la sua unica anima. Il cattolicesimo moderno contiene anche la tenerezza affettiva che O’Malley vede incarnata in modo superbamente emblematico nell’immagine messa in copertina al suo libro di ricapitolazione storiografica. Questa “icona” è la Sacra famiglia con sant’Anna di Rubens, oggi al Museo del Prado, dipinta verso la fine degli anni venti del XVII secolo. Qui la Vergine ha ben poco di angelico ascetismo. È una delle donne prosperose, care alla pittura sacra dell’artista fiammingo, dipinta con i costumi propri dell’epoca. Gesù Bambino la guarda e le accarezza dolcemente il collo, poggiando una mano sul fecondo seno materno, rappresentato scoperto come nelle antiche Madonne del latte. Siamo rimandati in modo suggestivo a un cattolicesimo dell’incarnazione, che si espande nella realtà concreta della vita dell’uomo, che ne assume le forme, che spinge ad andare verso il mondo, ad amare la natura, la famiglia, il lavoro, a fondersi con la concretezza oggettiva degli «stati di vita» del singolo, che insegna l’arte della letizia, della carità, del perdono, che fiorisce nella musica, nella scienza, nell’amore per l’antico, per la bellezza dell’arte, per le creazioni dell’ingegno umano, «gloria del Dio vivente». 

Su registri solo a prima vista totalmente diversi, questa medesima fede cattolica si poteva calare, con altrettanto slancio e vigore, nel cristocentrismo della pietà e della commiserazione. L’emblema del Cristo della croce, i Compianti, la tradizione del memoriale eucaristico, le scenografie iperrealistiche tradotte nel mirabile teatro pietrificato dei Sacri Monti, parlavano al cuore dei fedeli in ascolto con una intensità emotiva che pungeva i sentimenti e metteva in moto la fantasia del volersi immergere in una storia sacra da riattualizzare senza sosta dentro lo scorrere faticoso dei giorni. Non era materia per poche menti eccelse di visionari. 

Quando a Milano, scomparso da tempo Carlo Borromeo, si decise di mettere mano, nella seconda metà del Seicento, alla decorazione della sala in cui si riunivano i magistrati del più alto organo del potere civile dello Stato, il Senato, è dalla scena straziante della salita di Gesù al Calvario che si volle prendere avvio. Poi si completò con l’orazione nell’orto, con la flagellazione, l’incoronazione di spine, il Cristo inchiodato sulla croce, il Cristo innalzato fino all’ultimo stadio dei suoi patimenti (sono i pezzi forti conclusivi della mostra sul Seicento lombardo. Capolavori e riscoperte, attualmente in corso presso la Pinacoteca di Brera). I misteri dolorosi di cui si circondarono i potenti uomini di governo della Milano spagnola, nel centro del loro luogo di esaltazione di un provvisorio primato mondano, erano intrisi dello stesso spirito che aveva dato incandescenza alla grande mistica del Carmelo spagnolo. 

Nel suo centro vivo introduceva la scuola degli esercizi ignaziani e per tante vie diverse la ritroviamo nell’evangelismo di Valdés, di Michelangelo e di Vittoria Colonna, nei santi eroici dell’età moderna come lo stesso san Carlo, al fondo dell’entusiasmo missionario dei gesuiti e dei cappuccini, spalancato per la prima volta in senso planetario. Ma era dall’amore per la carne umano-divina di Cristo che si irradiava tutta una energia di cambiamento che, partendo dalla grazia della propria conversione, puntava a incendiare il mondo.


Il testo proposto è parte della relazione di apertura di Danilo Zardin, Il Concilio di Trento e il rinnovamento cattolico dell’età moderna, tenuta in occasione della giornata di studi sul tema “Ecclesia semper reformanda”. A 450 anni dal Concilio di Trento, organizzata dal Magazzeno Storico Verbanese in collaborazione con l’Archivio Storico Diocesano di Milano (22 novembre 2013).