Stiamo vivendo, e lo si può affermare senza temere di esagerare, una delle più dure ondate di secolarizzazione istituzionale e sociale dell’Europa: la crisi del cattolicesimo politico in tutta l’Europa, la fine di vecchi privilegi istituzionali, le nuove discussioni sul finanziamento pubblico delle Chiese, la svendita immobiliare della Chiesa in corso nei paesi al nord delle Alpi, la discussione sull’insegnamento religioso scolastico, l’accelerata erosione della coscienza culturale per le tradizionali festività, sono solo alcuni esempi che indicano la secolarizzazione radicalizzata che coinvolge la realtà del cattolicesimo in Europa. Tale velocità con cui si sta realizzando il cambiamento istituzionale dell’Europa è senz’altro dovuta alla globalizzazione, la quale non a caso sin dal pontificato di Benedetto XVI sta al centro della preoccupazione sociale del magistero.



Se inseriamo Papa Francesco in questo quadro di analisi che vede l’Europa “tradizionale” cedere davanti alle sfide della globalizzazione, allora egli appare molto meno legato alla garanzia dell’esistente rispetto al suo predecessore. Piuttosto emerge come un profeta che cerca di anticipare gli sviluppi per la Chiesa. Come colui che si appresta a preparare la cristianità europea a tali cambiamenti, potrebbe anche sembrare inaspettatamente un “Papa europeo”, assumendo questo predicato in un’ottica evidentemente molto differente dal suo predecessore. 



Il cambiamento sostanziale di prospettiva sarebbe innanzitutto quello di non rivolgersi più a qualcosa come un'”Europa cristiana” intesa come idea istituzionale; infatti questa prospettiva, come giustamente è stato sottolineato, non rientra nella sua visuale. Piuttosto egli s’interessa per i “cristiani d’Europa”, quelli che lo sono ancora e quelli che non lo sono più, per far loro riscoprire il cristianesimo come forma di vita, religiosa e laica insieme, in ambito politico ed economico. 

Senza strategie di potere e programmi politici, soprattutto nella sua recente Esortazione apostolica Evangelii gaudium il Papa rivolge l’appello a riscoprire l’essenziale di una sobrietà cristiana animata dalla carità e dalla fraternità. Così si rivolge ad un continente che, sotto la macchina politica, burocratica e amministrativa, ha smarrito la questione del senso essenziale della dignità della persona e delle istituzioni politiche ed economiche. Un esempio emblematico della nuova prospettiva di Francesco è costituito dalla sua visita a Lampedusa: dove certamente non ha “invitato” le popolazioni d’Africa ad imbarcarsi verso l’Italia, come è stato accusato dalla Lega Nord. Piuttosto ha rivolto un appello alla solidarietà concreta, e ha valorizzato pubblicamente la popolazione di Lampedusa, che in ogni discorso politico viene sistematicamente dimenticata. 



Il suo non era un appello politico ad “aprire le porte” dell’Italia in maniera socialmente irresponsabile, ma a riflettere su come generalmente ci poniamo nei confronti degli esclusi, dei poveri e di chi sta in disparte. Una nuova consapevolezza di queste sfide nella politica e nell’economia potrebbe aprire all’Europa – così si lascerebbe leggere la nuova esortazione – anche nuove opzioni di strategia istituzionale. 

E una Chiesa non adeguata alle logiche della crisi, ma interiormente rinnovata nello spirito della carità e della fraternità, potrebbe iniziare ed ispirare un tale cambiamento (EG 79, 93, 261). Non come istituzione che insegna, ma attraverso cristiani laici concreti, che riconoscono la loro nuova responsabilità in politica ed economia.

Se Francesco, nei suoi primi gesti e nelle sue iniziali prese di posizione, ha dato luogo a fraintendimenti, questi derivano anche dal fatto che si legge il Papa ancora nella sua funzione classica, innanzitutto come figura politica. Ma Francesco non vuole più essere identificato semplicemente con quella funzione. E questo non per sminuire la portata eminentemente politica del cristianesimo, né per “scristianizzare” le istituzioni o “desecolarizzare” la Chiesa. Spesso, chi usa questi termini, non è cosciente del potenziale destabilizzante che essi portano per l’intera cultura e per la civilizzazione occidentale. Non solo non si lasciano individuare affermazioni o gesti che vanno chiaramente in questa direzione, anzi il messaggio di Francesco risulta più coerente se viene letto nel senso dell’intenzione di richiamare i laici cristiani in politica ed economia alla loro più autentica responsabilità. Lo “spirito di povertà”, in questa prospettiva, non sta a significare una “povera Chiesa”, ma lo stile spirituale dell’agire cristiano che proprio per questo risulta “libero e forte”, per riprendere gli aggettivi con cui Sturzo ha appellato lo stile cristiano in politica nel suo famoso discorso lanciato dall’albergo Santa Chiara a Roma il 18 gennaio 1919.

Una tale lettura troverebbe, tra l’altro, anche il pieno sostegno di una delle opere più profetiche dell’800, con cui il suo autore, Antonio Rosmini, ha ispirato lo stesso Sturzo: infatti, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, finito all’indice dei libri proibiti nel 1849, a ben vedere è solo in superficie un’opera di riforma delle istituzioni ecclesiali, le quali vengono giustificate e ripensate, invece, con una riflessione molto più profonda. In realtà, Rosmini elenca cinque momenti strutturali in cui maggiormente si manifestava la crisi istituzionale della Chiesa dopo la Rivoluzione francese, a causa della quale ha perso gran parte delle sue vecchie garanzie. Questa crisi viene interpretata, però, come un momento di liberazione e fortificazione del cristianesimo, perché indicano l’occasione di cambiare mentalità. 

Si deve interpretare il momento storico, così Rosmini, come esigenza di staccarsi da un coinvolgimento nocivo nelle logiche politiche ed economiche esterne allo spirito cristiano, che per Rosmini non meno che come per Francesco sono indicate da una sola parola: “ricchezza”, intesa non solo nel senso di una ricchezza materiale, ma anche nel senso di una dipendenza da vecchi privilegi istituzionali e coinvolgimenti in poteri politici ed economici. Contrariamente allo spirito autentico del cristianesimo, tale ricchezza, così il Papa nell’esortazione, “anestetizza” nei confronti degli altri e produce una cultura dell’esclusione (EG 54-56).

Leggendo la situazione di allora nella luce della crisi odierna, la frase centrale delle Cinque piaghe potrebbe assumere un significato pregnante nell’interpretazione dell’attuale Pontificato: “La Chiesa primitiva era povera, ma libera; la persecuzione non le toglieva la libertà del suo governo, neppure lo spoglio violento dei suoi beni non pregiudicava per nulla la sua vera libertà. Ella non aveva vassallaggio, non protezione, meno ancora tutela, o patrocinatori; sotto queste infide e traditrici denominazioni s’introdusse la servitù dei beni ecclesiastici; da quell’ora fu impossibile alla Chiesa, come dicevamo, mantenere le sue antiche regole intorno all’acquisto, al governo e all’uso dei suoi beni materiali; la dimenticanza di queste norme, che toglievano a tali beni tutto ciò che hanno di lusinghevole e di corruttore, l’indusse all’estremo pericolo”. 

A ben vedere, per Rosmini, il problema della ricchezza e dei beni non è costituito dal loro acquisto, governo ed uso, ma da tutto ciò che “di lusinghevole e di corruttore” può essere assunto dagli stessi rappresentanti della Chiesa. È quindi tramite il clero e i vescovi che, secondo Rosmini, lo spirito “del feudalesimo”, cioè dell’abuso di ricchezza e potere, ha deformato le istituzioni ecclesiastiche. E come fa notare Francesco nell’esortazione Evangelii gaudium, lo stesso spirito determina ormai anche la logica dei laici in “guerra” tra loro “per invidie e gelosie” (EG 98).

Le cinque riforme per Rosmini consistono nelle seguenti: superare la divisione del clero dal popolo, che si manifestava nell’uso di una lingua incomprensibile al popolo (latino), la quale impediva la partecipazione attiva e matura di ogni fedele ai riti liturgici; contrastare la mancante formazione del clero, che non solo dava l’occasione all’introduzione di gerarchie specifiche nel clero, ma contribuiva anche a degradare il livello dell’istruzione dei fedeli con catechismi poco intelligenti; superare le logiche di potere che causavano una disunione dei vescovi, e l’ingerenza da parte del potere secolare nella nomina dei vescovi. È a questo punto che Rosmini pensa ad un sistema elettorale articolato (non semplicemente democratico) di determinazione dei vescovi in cui anche i laici possono esprimere la loro voce. Infine, l’ultima piaga denuncia in maniera più emblematica la dipendenza della Chiesa da logiche non spirituali ma di potere. Ciò che si esprime in tutte e cinque le piaghe è quindi l’unità e dunque l’inclusione di tutti i cristiani – clerici e laici – nella triplice carità temporale, spirituale ed intellettuale. Tale logica difatti è alternativa a quella feudale della ricchezza che produce divisione ed esclusione.

Con il superamento della dipendenza feudale della Chiesa dalla ricchezza e dal potere, Rosmini intendeva quindi tutt’altro che “deistituzionalizzare” la Chiesa o la sua importanza per la vita pubblica e politica moderna. La prospettiva della “riforma”, invece, era intesa come un ripensare le strutture ecclesiali nel senso del loro servizio all’unità e all’inclusione dei cristiani, clerici e laici insieme. 

La maggiore distinzione tra gerarchia ecclesiastica e politica che ne risulta, non deve però essere letta come una “depoliticizzazione” o “de-europeizzazione” della Chiesa, bensì come la migliore garanzia per la formazione di laici cattolici “liberi e forti” che avessero potuto così realizzare i principi cristiani in politica e in economia nelle nuove realtà delle città sempre più multiculturali e in fase di cambiamento profondo (EG 74-75).

Certamente i gesti e le parole di Francesco finora non hanno lasciato indifferente alcuno. Ora sarebbe giunto il momento di capire quale debba essere la responsabilità che in questo modo ha dato a tutta la Chiesa europea, clericale e laica: agli uni di ripensare la dimensione spirituale del loro ministero, e agli altri di riscoprire la loro responsabilità politica, economica e civile. Questa responsabilità può essere riassunta, con le parole dell’esortazione, come compito di “includere” quelli che nella competizione quotidiana rimangono emarginati e di superare ogni “indifferenza” nei loro confronti che risulta dalla logica del potere e della ricchezza (EG 53-54, 186). 

Francesco non nasconde che ciò comporta il coraggio di intraprendere nuove vie in politica invece che confidare in “rimedi che sono un nuovo veleno”. L’appello aggiornato di Rosmini e Sturzo che rivive nell’ultima esortazione di Francesco, è quindi quello di riscoprire, a partire da un senso autentico cristiano ed ecclesiale che non si è appiattito alle logiche politiche ed economiche della crisi, ma segua le dimensioni della carità e della dignità della persona, la “vocazione altissima” della politica (EG 205).

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