Flannery O’ Connor (1925-1964) è una delle indispensabili scrittrici americane moderne, ampiamente nota e tradotta anche in Italia; e la sua opera completa (un paio di romanzi, poco più di una trentina di racconti, alcuni saggi, una vasta corrispondenza) è stata da tempo diligentemente raccolta e meticolosamente commentata. In vista di questo statuto ormai canonico, qualunque aggiunta al suo corpus è interessante per gli specialisti. D’altra parte il lettore generale, rigirando fra le mani l’inedito della O’ Connor appena pubblicato (A Prayer Journal, introdotto da W. A. Sessions e pubblicato dalla prestigiosa editrice Farrar, Straus and Giroux) potrebbe essere scusato se avesse un momento di esitazione prima di lanciarsi nella lettura di questo esile libretto (96 pagine – ma più della metà di esse sono occupate dalla ristampa in facsimile del quadernetto scolastico contenente l’originale manoscritto del diario); soprattutto se il nostro lettore o lettrice avesse in mente certe operazioni editoriali inflazionate, per cui un breve testo la cui sede adatta sarebbe una rivista viene trasformato a forza in un volume.
Ma nel caso di questa intensa operetta tale scetticismo sarebbe del tutto ingiustificato: “Un diario di preghiera” è un vero libro, che lascia un segno, e che andrebbe tradotto al più presto; con l’auspicio che a tradurlo sia uno scrittore con sensibilità poetica, vista la qualità già alta della scrittura della O’ Connor appena ventunenne. Il diario risale infatti al periodo 1946-1947: la O’Connor, neo-laureata in Scienze sociali in un college del suo stato natale, la Georgia, ha cominciato a frequentare il già ben noto “Laboratorio degli scrittori” (The Writers’ Workshop) presso l’Università di Iowa.
L’idea del laboratorio di scrittura è ancora troppo spesso accolta, in Italia, da ironici sorrisi pseudo-crociani (suvvìa, non scherziamo, scrittori si nasce, non si diventa, ecc. ecc.). Ma un laboratorio di scrittura non presume di insegnare come diventare un best-seller. Un laboratorio serio allena (non insegna): prima di tutto a leggere; poi ad ascoltare, e dialogare con, altri scriventi (visitatori importanti del laboratorio o compagni di corso); e infine a scrivere con un certo livello di precisione ed eleganza. E i risultati si vedono: quando si confronti, ad esempio, la qualità media (i geniali vengono fuori dappertutto, ma sono rondini che non fanno primavera) della scrittura in prosa e in poesia negli Stati Uniti – una qualità di alto livello artigianale – con la qualità media in Italia.
In Iowa, Flannery O’ Connor fiorisce come lettrice/scrittrice. Dialoga con altri aspiranti scrittori, legge o comunque sfoglia autori formativi, in un “disordine” non accademico che è essenziale per ispirare la vera scrittura: da Kafka a Coleridge a Bernanos a san Tommaso a Rousseau, a Freud a Proust a Lawrence a Léon Bloy (il nome più insolito – anche se Papa Francesco lo ha citato di recente) a Péguy. Questi almeno sono i nomi che ricorrono esplicitamente nel diario.
Ma non vorrei che ciò desse l’impressione di una compilazione intellettualistica: le letture della O’Connor confluiscono in modo naturale (“Bloy mi è venuto incontro“, lei scrive) nel torrente della sua scrittura, che è di per sé – come detto – forte e originale (mentre compone il diario, la O’Connor ha già cominciato a scrivere quello che diventerà il suo grande romanzo, Wise Blood). Il diario di Flannery è sempre un dialogo passionale, il cui interlocutore diretto è Dio – per esempio: “Per favore dammi la grazia necessaria, o Signore, e per favore fa’ che non sia così difficile da ottenere come l’ha descritta Kafka“.
Il diario è forse il genere di scrittura in prosa che più si avvicina alla poesia: prima di tutto, è un genere poco redditizio ma in fondo molto desiderato e coltivato (è difficile trovare qualcuno che non sia pronto a, o a qualche punto della sua vita non abbia provato a, scrivere un diario o qualche poesia; ma lo stesso non si può dire dei romanzi); e poi, nel diario come nella poesia, periodi relativamente ben delimitati di creatività intensa si alternano con lunghi periodi in cui la scrittura tace – ed è sempre sul punto di tacere indefinitamente (in effetti, il manoscritto della O’Connor comincia a metà di una frase – pare che le pagine iniziali siano andate perdute – e non ha una vera e propria conclusione: semplicemente, la diarista smette di tenere il suo diario).
C’è un filo conduttore al tempo stesso chiaro e aggrovigliato nel diario di Flannery: si tratta di una serie di preghiere a Dio perché aiuti la vocazione di scrittrice che lei comincia a sentire e nutrire; ma tali preghiere (e questo è il tessuto propriamente drammatico del dialogo che s’intreccia nel diario) sono piene di esitazioni, di dubbi, di riflessioni autocritiche, di richiami all’umiltà, di scatti lirici, di squarci di vita quotidiana. Nel suo diario questa poco-più-che-ventenne fa già poesia e (dietro le ingannevoli apparenze di un discorso ingenuo) fa già, a suo modo, teologia – come quando, scrivendo: “Caro Signore per favore fa’ che io ti desideri“, Flannery sembra rispondere all’antica esclamazione, o fulminea preghiera, attribuita apocrifamente a san Francesco: “Io Ti vorrei amare”. Lasciamo allora la parola ad alcuni passi di questo Prayer Journal:
“La mia mente è una piccola scatola, caro Signore, infilata dentro altre scatole che stanno dentro altre scatole, e così via. C’è molta poca aria, nella mia scatola. Caro Signore, dammi quella quantità d’aria che non sia troppo presuntuoso richiedere“
“Come posso eliminare questo modino meticoloso, tipo estrarre lische di pesce, che ho di fare le cose? Eppure desidero tanto di amare Dio fino in fondo” (questa immagine delle lische di pesce è degna di un verso di Emily Dickinson)
“Quello che sto chiedendo è veramente molto ridicolo. O Signore, io dico che attualmente sono un formaggio, e tu fa’ di me una mistica, immediatamente. Però è vero: Dio può far questo – può trasformare un formaggio in una mistica […] Qui c’è una falena che vorrebbe essere re – è una cosa stupida e ignava, una cosa sciocca, una cosa che vuole che Dio, il quale ha creato la terra, divenga suo Amante. Immediatamente“.
Qui c’è una mente poetica al lavoro: nei suoi accostamenti surreali (il formaggio che diventa una mistica), così come nei raffinati echi verbali (il suono di moth “falena” viene ripreso da quello di slothful “ignava”). Ma ciò che è essenziale, e commovente, è la costante freschezza dell’impeto che percorre queste pagine. È qualcosa che ricorda i monumentali diari di una giovane donna dall’altra parte dell’oceano, il cui sfondo e destino sono drammaticamente diversi: Etty Hillesum, l’ebrea olandese dall’animo mistico morta a Auschwitz nel 1943 (non è inutile ricordare che in uno dei suoi racconti più lunghi e ambiziosi, The Displaced Person, Flannery proietta l’ombra dell’Olocausto su un angolo di campagna americana). Un diario può apparire a prima vista qualcosa di privatissimo, al limite dell’egocentrismo; e invece è un crocicchio di anime.