“Lo sanno tutti. Arrivano dall’Africa, dall’Oriente, arrivano tutti da noi. E da noi ripartono. Li radunano sulle spiagge della costa, ammassati come bestie, li picchiano, qualcuno è scappato, ha raccontato. Poi ci sono i barconi, il viaggio dura poco, l’Italia è vicina, dicono. Qualche volta arrivano i corpi a riva, quelli che non sono andati lontano, e muoiono per le botte, oppure se sono malati, li buttano giù. Ma che ne sai tu, dottore, e tu, commissario, se è così brutto morire in mare, quando sogni di andare lontano. O è meglio morire nella sabbia, senza bere e mangiare, o essere venduti, o saltare sulle mine. Io ne ho visti tanti, di morti. E non nei film. A voi fa impressione, a me no, io ne ho visti. Sono venuto via per non vederne più, non perché sono forte e coraggioso”.



Chi parla si chiama Khalid, un ragazzino di tredici anni. Scappato dalla Libia, “beccato” dalla Polizia e rimandato in patria.

Quello che gli accade tra questi due eventi è diventato un libro, azzurro, agevole. Lo ha scritto la materna Monica Mondo e uso questo aggettivo nel suo significato natalizio: l’autrice accompagna questo ragazzo vegliando su di lui, le sue parole non sono mai crudeli, nonostante la crudeltà di tutto ciò che circonda Khalid.



Il suo viaggio, prima in barca, anzi, stivato in un traghetto, poi nella pancia scura del porto di Roma e della sua periferia, è il paradigma più assoluto dei romanzi di formazione.

Solo che accade quasi il contrario: il ragazzino troppo adulto, che si crede tanto grande da scappare da solo e affrontare l’Occidente Europeo, è sconfitto, è ferito. 

Il ribelle dagli occhi neri che hanno visto troppe cose brutte è quasi morto, raccolto e curato in un ospedale di suore, li riapre e si scopre bambino.

Sono le dolci suorine a considerarlo tale, a coccolarlo, a accudirlo, a proteggerlo.

A cercare la famiglia che ha lasciato e a cui viene restituito, guarito.



Questo ragazzo porta con sé tutto il suo mondo, di affetto, di paura. Di eroismo.

La bellezza di questo racconto è tutta dentro il cuore del bambino, che viene custodito dal destino; il suo cuore inquieto lo ha spinto a scappare con un segreto terribile, esaltante: il padre e il fratello combattono con la milizia, hanno a che fare con la morte di Gheddafi.

Lui ne è segnato, come da una cicatrice, un marchio.

Fugge da un paese in guerra e approda in un Altro Paese, che pare in pace ma ha una guerra silenziosa e terribile che si consuma silenziosa nelle sue strade, nelle sue arterie periferiche, combattuta da prostitute e criminali, da sbandati e ultras, questa Terra Nuova è anche lei terribile con i suoi ragazzi, soprattutto con quelli più fragili e stranieri.

Monica Mondo usa Khalid e attraverso i suoi occhi ci porta a guardare il ventre molle della Roma povera, i soprusi, il razzismo solerte e sfruttatore. 

Ci fa guardare attorno e immerge il suo ragazzo nel momento peggiore possibile: nel mezzo di un parco all’imbrunire, un pugno di bulli armati di piercing, spranghe e voglia di violenza che vogliono esattamente usarla, nel modo più brutale possibile, contro lui e il suo compagno di colore con cui ha stretto una provvisoria amicizia. Di qui il coltello, la ferita, la difesa. Il dare la vita, per salvare l’onore, suo e dell’amico. L’eroismo, la dignità, la frattura.

Tra il bene e il male: diventa chiara.

Khalid, piccolo guerriero anzitempo, viene abbandonato sanguinante dalla banda dei bulli pusillanimi e ricoverato in ospedale grazie all’intervento dell’amico scampato, salvato.

Da qui si comincia a ritornare: indietro, verso l’infanzia, la famiglia perduta. Gli sguardi buoni, finalmente, veri. 

Gli adulti che sono capaci di un amore finalmente gratuito. E senza fine.  

Khalid si vede guardato per quello che è, con il suo bagaglio di odio, ma anche con la sua storia, viene restituito a questa, viene ricondotto alla sua vita, al suo senso, alla sua famiglia. Lui capisce che non serve scappare, che è più giusto stare davanti alla realtà, cercando le cose e le persone belle che ne fanno parte.

Così, imbarcato su un aereo, torna a casa, accolto dalle lacrime della madre, fatto sorridere dalle affermazioni della saggia nonna. Ritrova il fratello maggiore, che riconosce non più come un guerriero ma un semplice meccanico, innamorato, che cerca di guadagnarsi il pane e farsi una famiglia sua.

Anche i lettori lo vedono, il lieto fine non è un finale ma esattamente un fine, uno scopo, cioè un senso.

Khalid, il ragazzino arabo, capace di amare esattamente come tutti i ragazzi del mondo, descritto così bene nel suo cammino: un racconto che è come un alberello, sottile e forte, che punta dritto in alto, svetta nella sua speranza indicando il cielo.


Monica Mondo, “Il mio nome è Khalid”, Marietti, Milano, 2013, 90 pp.