Partiamo da un’evidenza. La sensazione di un momento di grave crisi, o almeno di difficile transizione, va al di là dell’economia e coinvolge le sfere politica, sociale, culturale, e perfino psicologica per così dire, almeno di questo Paese. L’arco dei sentimenti condivisi sembra oscillare tra indifferenza e ostilità, malessere e indignazione, diffidenza e rabbia. Dunque, affrontare questo tempo richiede di non fermarsi alla superficie. È necessario analizzare lucidamente i presupposti profondi della crisi, per ricavare qualche idea più chiara sulla sua natura e su come affrontarla.
Il convegno su “Custodire l’umanità. Verso le periferie esistenziali”, che per due giorni ha raccolto ad Assisi alcuni tra i più importanti e noti intellettuali italiani, e qualche nome internazionale come ad esempio Fabrice Hadjadj, costituisce la risposta consapevole della Conferenza episcopale umbra e del Progetto culturale della Cei a questa esigenza. Ovviamente numero e densità degli interventi rendono impossibile una sintesi minuziosa. Ma i nuclei fondamentali sono apparsi in maniera limpida. L’invito di Papa Francesco a muovere verso le “periferie esistenziali” incontra il nocciolo della questione: la periferia, che è una condizione di lontananza rispetto al benessere ma anche rispetto al vero e al senso, avanza; e l’umanità va custodita perché rischia di andare perduta.
E tale rischio non si esaurisce nella modalità dell’emarginazione economica. Certo l’economia è stata affrontata, ribadendo l’urgenza di un suo ripensamento etico. Ma se è l’uomo il vero nucleo problematico, occorreva individuare anche altri grandi snodi. Così, le tematiche economiche e sociali sono confluite nelle varie sessioni nella visione critica delle utopie, non solo strettamente politiche; o nella interrogazione preoccupata sull’arte contemporanea recisa dalle proprie radici nel sacro; o nella ricostruzione storica del rapporto non facile, ma pure assai importante e certamente fecondo, tra cattolicesimo e vita politica italiana. Non a caso la questione antropologica è stata al centro della riflessione forse più intensa, dove le analisi, ricche di dati e fatti, sulla rivoluzione sessuale (Scaraffia), sulla trasformazione/distruzione della famiglia (Volpi), e sulla tecnicizzazione dell’umano (Pessina), hanno descritto i molti e convergenti modi in cui il tessuto antropologico è stato progressivamente alterato – e continua ad esserlo. Qui voglio notare almeno un punto cruciale: la dipendenza dalla tecnica, che appare come una costante, convive con l’enfasi su un’autonomia che si vorrebbe assoluta. Come sempre i paradossi che descrivono in profondità un’epoca sono collocati nel suo punto cieco, risultando pertanto invisibili ad essa.
Dunque il filo conduttore è stata la domanda sulla condizione umana oggi. Effettivamente il nodo decisivo. Certo, la crisi, l’atteggiamento non pienamente riconciliato, sono costitutivi dell’uomo, non un’invenzione degli ultimi decenni di eclissi dei valori tradizionali e delle ideologie che li surrogavano.
Ma la novità che inquieta è la messa in discussione, anzi sotto accusa, dell’uomo stesso. È come se alla radice delle tonalità psicologiche rattrappite che prevalgono vi fosse un moto di sfiducia, anzi discredito, nei confronti dell’umano.
Questa dinamica ha svariate cause. Sono state avanzate dai relatori alcune ipotesi sulle sue radici prossime più importanti, che qui provo a sintetizzare. Il punto cruciale è forse che il postmoderno è il tempo in cui la libertà si è trasformata in solitudine. La ricerca dell’autonomia è sfociata nella prigionia in se stessi, dimenticando che i legami sono la condizione proprio per essere se stessi, e che la coesione sociale nasce da tali legami molto più che dalle leggi. Così l’altro è diventato invisibile, e peggio che per egoismo: per cecità (Bagnasco). Al di là della falsa opzione tra autonomia ed eteronomia, l’esigenza di un umanesimo cristiano, nutrito della libertà ma attento a non cadere nel delirio di onnipotenza che non sa più né riconoscere il reale né ammettere l’impotenza nella quale noi tutti veniamo al mondo e usciamo da esso (Magatti), è allora più urgente che mai. Sentire la dignità dell’uomo, come certamente ancora moltissimi riescono, ma senza più saperne affermare e amare l’identità, significa farne un anonimo strumentalizzabile, che giace inerme sul ciglio della strada come nella vicenda del Samaritano, nella quale, come ha osservato il cardinale Bagnasco nella sua lezione inaugurale, la questione del dare nome, del sapere riconoscere colui che grazie a ciò da anonimo diventa prossimo, è nascostamente centrale. È un programma ambizioso, ma proprio perciò è l’unico che possiamo proporci: il cristianesimo può e deve fungere da rinnovata riserva critica, serbando la consapevolezza che quale autentica liberazione dal dolore esso non si risolve nella carità a se stante, senza una dimensione di trascendenza (come è stato notato dal laico Salvatore Natoli).
Occorrerà, io credo, riprendere il discorso, cercare di incidere sull’andamento complessivo di questa crisi sfaccettata. Al di là delle ipotesi probabilmente illusorie di una rinnovata forma dell’impegno cattolico in politica, l’essenziale è che coloro che si riconoscono in queste preoccupazioni non rinuncino a farne la bussola del proprio impegno. Non a caso nel suo intervento Galli della Loggia ha ripreso una celebre e scomoda analisi, svolta tra altri da Augusto Del Noce, che osservava che all’influenza centrale del grande partito dei cattolici nella cosiddetta prima Repubblica, si era accompagnata l’indifferenza per il ruolo e il peso della sfera culturale: il che, una volta finito quel ruolo politico, ha lasciato quasi un vuoto. Ora, tale vuoto di una cultura cattolica condivisa ed appropriata, ha inciso drammaticamente sulle dinamiche del Paese. Pertanto, senza un’elaborazione culturale non si saprà essere all’altezza della sfida antropologica. Si può sperare che l’arcivescovo di Perugia Bassetti, che nel concludere il convegno da lui fortemente voluto ha testualmente osservato che era stato indimenticabile, abbia con ciò indicato, in qualche modo, anche l’impegno programmatico a non far deperire i semi gettati ad Assisi.