Pioveva ad Alba, il fiume Tanaro era gonfio. Mi veniva in mente l’indimenticabile attacco del 23° capitolo del Partigiano Johnny (secondo la versione Isella del ’92): “Il sole non brillò più, seguì un’era di diluvio. Cadde la più grande pioggia nella memoria di Johnny: una pioggia nata grossa e pesante, inesauribile, che infradiciò la terra, gonfiò il fiume a un volume pauroso (“la gente smise d’aver paura dei fascisti e prese ad aver paura del fiume”) e macerò le stesse pietre della città”. 



Forse non poteva esserci uno scenario più suggestivo per accogliere “La forza dell’attesa”, il recente convegno organizzato per i cinquant’anni dell’acerba morte di Beppe Fenoglio (1922-1963). È stata un’occasione indimenticabile. All’ordine del giorno: inediti, nuove interpretazioni, nuove linee di ricerche (e un’infornata di giovani, rigorosissimi, studiosi fenogliani, tra cui Veronica Pesce, Fabio Prevignano e Valentino Foti Belligambi). L’attenzione mediatica si è concentrata da subito sul “piccolo tesoro” delle lettere ritrovate. L’epistolario di Fenoglio è infatti scarnificato all’osso. Pochi gli amici, pochi quelli che conservarono le lettere, pochi, forse, quelli che seppero riconoscere in lui un cavallo di razza prima del boom del Partigiano Johnny (scoperto e pubblicato per la prima volta da Lorenzo Mondo nel 1968). 



Luca Bufano curatore delle Lettere fenogliane (2002) ha giustamente ricordato: “Fenoglio non è stato un assiduo corrispondente; pochissime erano le sue amicizie al di fuori di Alba, e rare sono state le occasioni epistolari per eccellenza, cioè i viaggi, che nella sua breve vita lo hanno portato via dalla sua città. Eppure l’epistolario sarebbe stato molto più ricco, e di almeno doppie dimensioni, se a questi fattori oggettivi… non si fossero aggiunti altri fattori esterni; in particolare l’incuria dei destinatari e l’iniziale disattenzione verso un autore, come egli si definì, “appartato e amateur like…”.



Il ritrovamento delle lettere è stato decisamente inaspettato, fortuito, non diversamente da quanto era accaduto per i preziosi Appunti partigiani, ritrovati sulle sponde del Tanaro dopo un improvvido svuotamento di una soffitta (per saperne di più si può leggere l’introduzione di Bufano alle Lettere). Le quattro lettere “mai viste” sono state ritrovate dalla giovane studiosa Laura Aldorisio (Università Cattolica) durante l’elaborazione della propria tesi, intitolata La Resistenza con gli occhi di un bambino (che ricorda le immagini dell’Uomo che verrà, lo splendido film di Giorgio Diritti sul massacro di Marzabotto visto dagli occhi di una bambina). Sono missive riemerse dall’archivio di Giambattista Vicari (1909-1978), il fondatore della rivista “Caffè”, che proprio da Fenoglio veniva riconosciuto come uno dei suoi critici più acuti. 

Sono lettere brevi, ma in cui si legge tutto l’ardente (e incompreso) spirito di Fenoglio. Tra le più significative, quella del 3 dicembre 1952, importantissima, in cui rivendica la propria originalità, svela le prime incomprensioni con la casa editrice madre (Einaudi) e la sua cultura che valicava ampiamente i confini della provincia.

Eccone uno stralcio fondamentale: “Caro Sig. Vicari: mi scusi se Le scrivo con carta della mia Ditta, ma non ne ho altra sottomano e desidero rispondere immediatamente alla Sua gentile lettera del giorno 29 novembre. In verità il mio libro va raccogliendo una più che soddisfacente ed un poco insperata messe di recensioni piuttosto favorevoli. Soltanto Lei però (e sono lieto di dargliene atto) ha capito, e cercato di far capire, che la mia incolta prosa era frutto e risultato di cultura. Persino i Consulenti dell’Einaudi, erano convinti, almeno nei primi tempi, che io altro non fossi che un meccanico dotato di forte istinto narrativo, mentre io ho alle spalle un bel po’ di studi classici e traduco a prima vista Shakespeare ed Hopkins. Complimenti dunque, e soprattutto grazie, per la Sua intuizione…”.

Fenoglio avrebbe avuto vita dura contro gli scogli ideologici. Lo scrittore Alessandro Tamburini ha raccontato con grande efficacia la selva di critiche che gli vennero mosse da parte marxista, sulle pagine dell’Unità e di Rinascita. Fra l’agosto e l’ottobre 1952 I ventitre giorni della città di Alba (usciti in giugno per i “Gettoni” di Elio Vittorini) subirono un serrato fuoco incrociato. Il pezzo più feroce fu quello di Davide Lajolo del 29 ottobre sull’Unità. Si accennò, tra l’altro, “a giochi di parole, di brutte parole” (nel suo Diario Lajolo scrisse: “Ho letto I ventitre giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio. Non mi è piaciuto. Mentre perdura la propaganda antiresistenziale e i partigiani vengono buttati in carcere come delinquenti, questo racconto di Beppe che ha fatto la Resistenza accanto a me, sulle Langhe, mi è parso aiutare chi s’affanna a denigrarci”). Ci fu anche chi, come Carlo Salinari, nel dicembre 1953 su Rinascita, fiocinò Fenoglio senza averlo neppure letto (salvo poi pentirsene alla morte dello stesso Fenoglio quando parlerà di quei racconti come di “una grande rivelazione”). Nel clima dei primi anni Cinquanta era troppo forte presentare un volto della Resistenza diverso dalla cavalcata trionfale. La fenogliana versione “integrale” della Resistenza era arrivata con mezzo secolo d’anticipo. 

Il culmine della full immersion fenogliana si è toccato con i ricordi della sorella Marisa. È come se avesse preso per mano i partecipanti e li avesse portati dentro la macchina del tempo. Un film dai colori seppiati che ha acceso le immagini degli inverni ghiacciati sulla Langa, gli albori della vocazione di scrittore di Beppe (in una città, Alba, che non aveva interesse per gli scrittori), il suo binario appaiato di fumo e scrittura, il rapporto con i clienti della Macelleria Fenoglio: “quando ero bambina mia madre all’ora di chiusura mi mandava in giro per vedere se gli altri macellai avevano già chiuso la serranda, solo allora poteva chiudere la Macelleria Fenoglio…”. 

Guido Chiesa, il regista del Partigiano Johhny, ha suggerito in un’intervista di approfondire il rapporto di Fenoglio con la madre. Di lei la figlia Marisa ha tracciato un ritratto fortissimo, di donna inquieta, “un impasto di scariche adrenaliniche”, che sembrava non conoscere la tenerezza, ma che in realtà possedeva una spiccata empatia verso il prossimo. Di origini umili, seguì i consigli del sacerdote che le raccomandava di far studiare i figli, perché avevano la testa “fine”: lo comprese e volle per tutti (Beppe, Valter, Marisa) gli studi superiori. Ed era orgogliosa di interrogarli sulle declinazioni in un angolo della macelleria tra lo stupore dei clienti: rosa, rosae, rosae… 

Nel racconto “Ettore va al lavoro” (estrapolato dalla Paga del sabato) il protagonista, alter ego di Fenoglio, è al centro di scontri titanici con la madre. La scintilla era dovuta al vizio del fumo, ai soldi spesi, ma il motivo sotterraneo era il mancato inserimento nella vita “borghese”: “Ettore pensava che costoro che si chiudevano tra quattro mura per le otto migliori ore del giorno, e in queste otto ore fuori succedevano cose, nei caffè e negli sferisteri succedevano memorabili incontri d’uomini, partivano e arrivavano donne e treni e macchine, d’estate il fiume e d’inverno la collina nevosa. Costoro erano tipi che niente vedevano e tutto dovevano farsi raccontare, i tipi che dovevano chiedere permesso anche per andare a veder morire loro padre o partorire loro moglie. E alla sera uscivano da quelle quattro mura, con un mucchietto di soldi assicurati per la fine del mese e un pizzico di cenere di quella che era stata la giornata”. 

La madre di Fenoglio apparentemente mal tollerava la bizzarria del figlio scrittore (magari in contrasto con la carriera fulminante in azienda di Valter). Eppure, racconta Marisa, era proprio lei a credere più di tutti in lui. 

Fu lei, lo ricorda Marisa nel memoir Il ritorno impossibile, nel 1947 ad “affittare” una macchina per scrivere per il figlio. Venne “sorpresa” dalla zia Elvira e nacque un vivacissimo dibattito: 

“Dove vai?”.

“Vado da Rotellini in via Maestra ad affittare una macchina per scrivere”.

“Una macchina per scrivere? Per chi?”.

“Per Beppe”.

“E perché?”.

“Vuole scrivere”.

“Ma è diventato matto?”.

“No! Vuole scrivere! Scrivere libri”.

“Allora siete diventati tutti matti!”.

“Tu non capisci niente Elvira! E non hai neanche bisogno di capire! Tu puoi continuare a dare del matto agli scrittori perché li vedi da lontano. Io invece ne ho uno in casa…”. 

Istinto di una madre che vedeva con occhio limpido e profetico il destino del figlio. Gli sarebbe sopravvissuta 26 anni, chissà forse aveva bisogno di molto tempo per difenderlo da tutto e da tutti. 

Sapeva che suo figlio sarebbe stato segno di contraddizione. Lo sapeva lo stesso Fenoglio. Nel suo penultimo biglietto, poche ore prima di morire, scrisse dall’ospedale all’amico don Natale Bussi: “Ho chiesto a Luciana se voleva regolare il matrimonio con la chiesa. Mi ha detto di no. Così ho la coscienza in pace. Ho anche deciso con lei per i funerali civili. Ho sbagliato? Caro d. Bussi, parli qualche volta di me ai suoi giovani; mi difenda sempre. Si interessi qualche po’ della mia piccola Margherita…”.