I hide myself within my flower,
that wearing on your breast,
you, unsuspecting, wear me too
and angels know the rest.

Molte ipotesi sono state fatte sul perché Emily Dickinson (1830-1886), a un certo punto della sua esistenza, decise di chiudersi tra quattro mura e non uscirne mai più. La versione romantica è quella che la vuole affranta per amore, al punto da rifiutare una vita attiva; l’altra, forse più realistica, ha a che fare con la terribile contesa che divise la famiglia Dickinson in due, a causa della relazione extraconiugale che l’amato fratello, Austin, intrattenne per ben tredici anni con la giovane moglie del professore di astronomia del college di Amherst.



Oggi come oggi un adulterio che divide una famiglia fa sorridere, ma bisogna inquadrare i fatti nella giusta cornice temporale (1881) e considerare che i Dickinson erano la quintessenza del puritanesimo provinciale del New England, discendenti diretti dai primi settlers nel nuovo continente attraverso Nathaniel Dickinson, trasferitosi nel 1637. La perdita della retta via di Austin provocò sconcerto, essendo la famiglia molto in vista, ma anche malessere vero e proprio a tutti i parenti che, pur schierandosi da una parte o dall’altra, vissero questo evento come la fine della pace familiare, la perdita dell’armonia di quel piccolo paradiso tra Homestead, residenza dei genitori Dickinson e delle due figlie Emily e Lavinia, ed Evergreen, residenza di Austin e Susan Dickinson, edifici divisi solo da un pezzo di prato.



La reclusione volontaria di Emily va forse letta come l’impossibilità a scegliere. Da una parte il dolore di Susan, scrittrice lei stessa, cognata e amica, la persona di famiglia più vicina alla sua poesia; dall’altra la passione di Mabel, l’esile intrusa, abile pianista, capace di assorbire la vis poetica di Emily. Entrambe, Susan e Mabel, furono destinatarie di lettere e poesie, in modi differenti la aiutarono a coltivare la propria arte e, attraverso di essa, essere una donna diversa, pur rimanendo fedele a se stessa, in un’epoca in cui le signore come si deve leggevano il libro del reverendo Bennet, Lettere a una giovane signora (1789). Il reverendo ammoniva le femmine a non aspirare a scrivere niente di più di una lettera, ed Emily assecondò diligentemente questo consiglio definendo la sua poesia una “lettera al mondo”, e producendo 1789 poesie.



Con i capelli rosso scuro e qualche lentiggine, incarnava in un solo spirito la modestia del mondo domestico provinciale e la grandezza della sensibilità e della raffinatezza. A detta di sua cognata Susan, era un genio incompreso e sprecato per l’epoca.

Appassionata di botanica ma anche di geologia (la natura è molto presente nelle poesie) paragonò la sua vita a quella di un vulcano spento. 

La sua solitudine corrispondeva alla superficie sotto la quale però scorreva un magma informe e carico di passione che, attraverso un lavoro solitario e quasi espiatorio, veniva disciplinato e restituito al mondo sotto forma di verso poetico.

Forse senza questa estraniazione non avremmo oggi la densa opera che invece testimonia l’emotività di una vera dama di Shalott che, pur rimanendo isolata, comprese il mondo nel rigore delle sue regole ma anche nell’insulto dei suoi inganni. La sensibilità di Emily le consentì di vedere le cose esattamente come stavano e quella certa affettazione nei rapporti sociali le venne utile per stemperare la sua inclinazione a esprimersi di conseguenza, senza molti preamboli. Agli ospiti che si recavano in visita a Homestead, pur non mostrandosi, lasciava in dono sempre dei fiori accompagnati da frasi gentili o qualche verso. Vestita di bianco, nelle sue stanze solitarie, riusciva a distillare il condensato di amore che occupava la sua anima: amore per la vita, per la famiglia, per la natura.

Purtroppo quasi tutte le lettere, la corrispondenza di anni con Susan, Mabel, le cugine Norcross, il critico letterario e abolizionista Thomas Higginson, il giornalista Samuel Bowles, vennero bruciate dopo la sua morte, per sua stessa volontà. Ci è negata dunque la sua parte più intima e meno filtrata dal rigore poetico.

Per ironia della sorta la porzione più consistente dell’opera della Dickinson fu curata proprio da colei che aveva segnato l’inizio della fine, dalla peccaminosa ma efficace Mabel Todd, che mise insieme tre volumi e li pubblicò, postumi, con l’aiuto di Thomas Higginson.

Alla fine poco importa capire chi Emily Dickinson avesse in mente, ma soprattutto nel cuore, quando scrisse le sue poesie d’amore. Potrebbe esse un uomo, una donna, forse Dio. In tutte si percepisce il gioco eterno della ricerca amorosa, dell’inseguimento silenzioso non sempre riuscito, dell’esserci pur rimanendo trasparente agli occhi dell’altro. With a flower è la prova della capacità di Emily di condensare l’emozione in pochi versi mostrando al contempo l’ascesa e la caduta del cuore. La speranza e la disillusione esistono sulla stessa riga. È anche la prova che bastano poche parole, scelte con la premura dell’emotività, per farci cadere nell’abisso dell’amore, doloroso come solo l’amore assoluto può essere.

I hide myself within my flower,
that, fading from your vase,
you, unsuspecting, feel for me
almost a loneliness.


(Mi nascondo nel mio fiore
che si consuma sul tuo petto,
tu, senza saperlo, mi consumi a tua volta,
e gli angeli sanno il resto.
Mi nascondo nel mio fiore che
scompare dal tuo vaso,
Tu, senza saperlo, provi per me 
quasi una tristezza.)