A volte tornare indietro non è un errore. Può servire per chiudere una vicenda lasciata in sospeso, anche se ormai appartiene al passato. L’ultimo libro di Stephen King, il re della letteratura horror, riprende dopo 36 anni la storia di Shining, il bestseller pubblicato nel 1977 e trasformato in un film da Stanley Kubrick. Doctor Sleep – questo è il titolo del romanzo – ha debuttato in America a fine settembre e arriverà in Italia a fine gennaio, pubblicato da Sperling&Kupfer.
Perché dare un sequel a Shining?
Il legame tra l’autore e il nuovo libro va oltre l’esperienza letteraria: con il personaggio di Jack Torrance, in Shining Stephen King ha creato il profilo di un uomo disturbato da scatti d’ira e comportamenti ossessivi che rispecchiavano un momento critico della sua vita personale. Lo scrittore stava affondando nella dipendenza dall’alcol e combatteva contro i suoi mostri privati, che si riflettono nei toni cupi e angoscianti della storia di Jack, frustrato dopo avere perso il lavoro e costretto ad accettare un posto come guardiano d’inverno in un albergo affacciato sui monti del Colorado. Chi ha visto l’adattamento di Kubrick avrà in mente le stanze silenziose, i corridoi deserti e i boschi circostanti, che sembrano animati da inquietanti presenze. Isolato dalla neve, l’hotel si rivela un luogo maledetto, il teatro di una serie di morti violente che Danny, il figlio di Jack, scopre grazie ai suoi poteri extrasensoriali. Il Male, invisibile ma presente, trascina Jack in un abisso di violenza che si rovescia sulla sua famiglia.
Anche se King non l’ha apprezzato, il film ha reso bene il senso di oppressione e di claustrofobia trasmesso dalla storia. La macchina da presa ha assunto il punto di vista dell’entità sovrannaturale che incombe sull’albergo e sulla vita dei protagonisti, trasmettendo allo spettatore un senso di inquietudine e di angoscia che aumenta fino a esplodere nel finale.
Se Shining ha incarnato i suoi demoni, Doctor Sleep è l’opera di un uomo che di quei demoni si è liberato, ma sa come richiamarli per scrivere.
Vinta la sua battaglia contro l’alcolismo, King sembra voler dimostrare che è possibile sconfiggere i propri fantasmi. Nel saggio On Writing, lo scrittore ha negato la connessione tra l’abuso di alcol e la creatività, affermando che “Hemingway e Fitzgerald non bevevano perché erano creativi, diversi o moralmente deboli. Bevevano perché è quello che fanno gli alcolisti”.
Secondo i critici americani, la fiducia che deriva dalla consapevolezza di essere fuori dal tunnel si riflette nel tono ottimista di Doctor Sleep, che racconta la storia di Danny Torrance, ora Dan, che dopo la turbolenta infanzia si ritrova a lavorare in un ospizio dove “accompagna” gli anziani al sonno perpetuo.
Anche lui, come il padre, ha problemi con l’alcol ma, invece di lasciarsi travolgere, cerca un aiuto negli Alcolisti Anonimi e prova a risalire la china.
Non sarebbe un romanzo di Stephen King, però, senza il mistero. Dan si imbatte in una bambina bisognosa di aiuto, che condivide con lui i poteri rivelati in Shining. E stavolta i nemici non sono invisibili. Una stirpe di immortali ha preso di mira i ragazzini dotati di capacità paranormali, “the shining”, appunto. Sono rappresentati come gente itinerante che vive nelle case mobili, sfruttatori che si nutrono e uccidono per poi proseguire sulla loro strada, senza mai voltarsi indietro. Persone prive di quei rimorsi che, invece, costellano la vita delle brave persone. Sono creature simili ai vampiri, e il solo fatto di possedere una forma e un nome li rende meno inquietanti, anche se non meno crudeli, dei cattivi che portarono Jack alla follia.
È l’autore stesso a dichiarare che i demoni peggiori sono quelli che ti torturano durante la notte, quando sei sveglio e non puoi liberartene. Ai vampiri e agli altri mostri, ormai, siamo abituati: le librerie sono piene di storie che appartengono al genere horror. E pensare che per molti anni Stephen King fu guardato con sospetto dai critici, che non apprezzavano i suoi romanzi nonostante il grande successo popolare. Soltanto negli anni Novanta è avvenuto il cambiamento, quando si cominciò a comprendere che King condivideva con i grandi maestri il dono di una scrittura fluida, precisa ed efficace, uno stile visivo e la grande capacità di riflettere la propria infanzia nei libri, senza per questo cadere nella trappola dell’autobiografismo.
“Sistemate la vostra scrivania nell’angolo e, tutte le volte che vi sedete lì a scrivere, ricordate a voi stessi perché non è al centro della stanza. La vita non è un supporto dell’arte. È il contrario”, ha scritto nel già citato On Writing. L’arte non deve sostituire la vita ma analizzarla, aiutare a comprenderla, anche nei suoi aspetti più oscuri e negativi.
L’intreccio tra la vita e la finzione è al centro di un altro dei bestseller di King, Misery, un thriller scritto nel periodo nero dell’alcolismo e pubblicato nel 1987. Come in Shining, la vicenda è ambientata in Colorado, dove lo scrittore Paul Sheldon si risveglia dal coma dopo un incidente stradale e si ritrova a casa di una sua fan, mentalmente malata e in attesa dei nuovi capitoli della sua serie preferita, Misery. L’ossessione della lettrice per l’eroina letteraria e per il suo creatore si trasforma in una furia omicida che, nonostante tutto, non riesce a distruggere in Paul la fantasia e la voglia di costruire nuove storie.
La scrittura ha permesso a Stephen King, autore di una lunga lista di successi, di pagare le bollette. Ma non solo. “Scrivere non mi ha salvato la vita”, afferma il romanziere, “ma ha continuato a fare quello che aveva sempre fatto: rendere la mia esistenza un luogo più luminoso e più piacevole”.
Con i suoi romanzi trasmette inquietudine, non rassicura né consola, eppure è uno degli scrittori più famosi al mondo. Ha influenzato i nuovi autori horror europei, come lo svedese John Ajvide Lindqvist, il cui ultimo romanzo Una piccola stella (Marsilio) è stato paragonato al primo successo di King, Carrie.
Come sostiene lo psicologo Kirk J. Schneider, l’esperienza dell’orrore è necessaria all’uomo per sviluppare una personalità completa. E, nonostante la costante presenza della morte, nelle storie di King si intravede a volte una speranza, spesso legata alla famiglia e ai suoi rituali, che rappresentano le uniche certezze dell’uomo. Nella nostra società fintamente razionale e lontana dalla superstizione sopravvivono le antiche paure e i tabù ancestrali, relegati in un angolo ma non per questo dimenticati.
Può piacere o meno, ma la letteratura dell’orrore è un modo di esorcizzarli.