Di Gabriele Basilico, il grande fotografo milanese morto ieri, ho questo ricordo: avrebbe voluto fare un giorno un lavoro sulle nuove chiese costruite dagli anni 60 in poi. Io gli chiedevo perché, visto che in gran parte quelle chiese sono così brutte. E lui, con molta semplicità, mi ribatteva che la vita sa rendere interessanti e anche belle anche le cose brutte. In questa risposta c’è tutto lo spirito di Gabriele Basilico, forse il più importante fotografo di archittettura al mondo, presenza contesa da tutte le riviste internazionali, autore di lavori già entrati nella storia, come il ciclo sulle Fabbriche a Milano, quello dei porti francesi nella Mission Datar, o il ciclo di foto nella Beirut distrutta dalla guerra (una di queste è finita in copertina di Cattedrali, il libro di Luca Doninelli che lui amava come pochi altri). 



Le immagini di Basilico non hanno mai presenze umane; quando girava per le città cercava pazientemente le prospettive giuste girando in modo infaticabile e poi aspettava altrettanto pazientemente l’istante in cui l’inquadratura era il più possibile sgombra. Eppure quando si guardano le sue foto questo è un particolare che quasi sfugge. Il fatto è che le sue architetture necessariamente (cioè per ragioni professionali) libere da elementi di “disturbo”, sono sempre impregnate di presenze umane. Respirano quelle presenze che non si vedono. C’è ad esempio una delle sue foto più famose, scattata la sera in via Ferrante Aporti a Milano, dove si vedono le geometrie regolari di un palazzone anni 60 e il buio è interrotto solo dalla luce accesa dietro le finestre: Basilico, con quell’immagine, sembra calamitare il nostro pensiero verso chi sta dentro. Un’immagine piena e bellissima, checché si pensi di quel palazzone.



Basilico non fotografava le belle città. Iniziò negli anni 60 alla scuola di quello straordinario poeta delle immagini che fu Luigi Ghirri: fu lui a lanciare una nuova generazione di fotografi (tra i quale anche Giovanni Chiaramonte) invitandoli a quel Viaggio in Italia che è una dei più bei capitoli della storia recente non solo della fotografia ma anche della cultura italiana. Basilico in quell’esperienza lasciò maturare uno sguardo capace di non censurare niente. Uno sguardo capace di scovare geometrie e ordine anche in angoli di città sui quali cadono sempre i nostri sguardi di disprezzo. Con pazienza cercava il punto di vista, la prospettiva disvelatrice e alla fine dimostrava, con l’evidenza di foto che lasciano ogni volta con il fiato sospeso, come la bellezza possa annidarsi ovunque. 



Basilico era milanese. E questo suo esercizio di indagine con la macchina fotografica (o meglio, con il banco ottico) era iniziato proprio nella sua città. Alla fine degli anni 70 aveva realizzato uno di quei lavori celebri che ho già citato, e che aveva intitolato non a caso “Ritratti di fabbriche”. In agosto, nella città deserta, aveva fotografato in periferia i luoghi di lavoro. Luoghi spesso consumati dall’usura, vecchi capannoni, ciminiere, architetture scarne: eppure una volta finito questo suo viaggio, viste nell’insieme, tutti scoprivamo non solo un’imprevista bellezza, ma addirittura un ordine, una coerenza, un equilibrio di forme che non era esito di una pianificazione ma semmai espressione di una vita. La vita della sua città. Volle chiamarli “Ritratti”, definizione che non pertiene a degli edifici, proprio per rendere più chiaro il fatto che quelle architetture esprimevano il volto di una città, il suo modo di essere, di lavorare, di concepire la vita. Gli uomini non c’erano, ma tutto in quelle foto parlava degli uomini, delle loro giornate, delle loro fatiche, dei loro affetti, del loro modo di stare insieme e di costruire.

Personalmente sono molto grato a Gabriele Basilico perché ho visto in lui un artista che non ha snobbato la realtà. Nei suoi lavori infatti non c’è mai ombra di una recriminazione rispetto alle cose. Direi anzi che la sua grandezza è proprio in questa apertura di credito che si trasformava in input sempre chiari all’apprecchio fotografico, strumento del suo mestiere. Non aveva bisogno di trasfigurare la realtà per farla sembrare “altra”. Doveva solo cercare, guardare, e poi aprire l’obiettivo nel punto giusto. Così la realtà ogni volta si ricomponeva con una semplicità lineare e inattesa. Basilico, in fondo, oltre che un grande fotografo è stato un grande maestro di sguardi.