Un’immensa libertà che prorompe da una ragione semplice. Il gesto delle dimissioni di Benedetto XVI, «di grande importanza per la vita della Chiesa» può lasciare sgomenti, può invocare complotti, può sorprendere i credenti, può addirittura – come nell’editoriale che Eugenio Scalfari ha scritto su Repubblica l’altro ieri (12 febbraio 2013) – evocare fantasiose immagini di una laicizzazione della Chiesa, ma può anche essere letto nel quadro di un Magistero che ha fatto del rapporto tra fede e ragione il cuore del messaggio cristiano. Una fede che non agisce alla luce della ragione, non è fede. Come il Papa ebbe a dire all’interno del tanto ricordato discorso all’Università di Regensburg nel 2006: «Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». È, dunque, all’interno della dinamica fede-ragione-libertà che può essere colto il possibile cammino che Benedetto XVI vuole compiere e vuol far compiere all’uomo di oggi.



Del resto, durante la XXIV Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, parlando della missione propria dei laici, aveva anche affermato che «spetta ai fedeli laici mostrare concretamente nella vita personale e familiare, nella vita sociale, culturale e politica, che la fede permette di leggere in modo nuovo e profondo la realtà e di trasformarla”, aggiungendo subito oltre che “il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà, chiave di giudizio e trasformazione».



Mi sembra, perciò, di grande rilievo, per il momento storico che stiamo vivendo tutti, credenti e non, comprendere a fondo l’uso che Benedetto XVI fa della ragione, offrendoci un metodo che chiarisce alcuni punti chiave del rapporto tra fede e ragione. Innanzitutto, il carattere gnoseologico o, ancor meglio, epistemologico della fede: la fede, in quanto conoscenza, permette una lettura piena e nuova della realtà. Anzi, solo attraversando una tale intelligenza che si attua nella fede, è possibile un giudizio nuovo sulla realtà tutta. Quali sono le ragioni di una simile posizione? È possibile ammetterne una pertinenza ragionevole?



Per andare pienamente a fondo di una tale posizione occorre riandare a un testo sulla razionalità del cristianesimo nel quale l’allora cardinale Joseph Ratzinger mostrava come il cristianesimo, a differenza delle religioni dell’antichità greco-romana, non si sia basato su immagini e percezioni mitiche, bensì si richiami a quel divino che può essere percepito anche dall’analisi razionale della realtà. Tutta l’argomentazione di questo passaggio è condotta attraverso la discussione che Agostino ha intrapreso con la filosofia religiosa di Marco Terenzio Varrone, riguardo alla natura del discorso teologico nelle religioni antiche e nel cristianesimo, attribuendo a quest’ultimo il suo posto nell’ambito della “teologia fisica”, a differenza delle religioni antiche che si basano su immagini e presentimenti mitici, la cui giustificazione è possibile rintracciare solo nella loro utilità poetico-politica.

«Nel cristianesimo – pertanto – la razionalità è diventata religione e non più il suo avversario» . E questo si deve all’unione delle due dimensioni della religione – quella creaturale e la dimensione salvifica – che nel cristianesimo si legano insieme in modo inscindibile. La ragione è diventata religione, perché il Dio della razionalità è entrato nella storia. La fede cristiana costituisce, allora, l’unica opzione che l’uomo ha per attestare la priorità della ragione: l’incipit del vangelo di Giovanni è, del resto, un segno inequivocabile – nel pensiero di Benedetto XVI – che «al principio di tutte le cose c’è la forza creatrice della ragione, il Logos», che spazza via le teorie previsionali e casuali di Popper sull’origine del reale. Come mai, allora, si è giunti oggi a dichiarare contradditori se non opposti tra loro, razionalità e cristianesimo? È questa una domanda alla quale non si può rispondere facilmente senza porsi la questione del fondamento della razionalità, vale a dire, del fondamento dell’intelligenza della realtà.

Ed è proprio chiarendo il significato del termine ragione che occorre prendere le mosse per poter comprendere l’atto “rivoluzionario” di Benedetto XVI. Con buona pace di tutti i nostri maître à penser, non vi è alcun complotto ordito ai danni del Papa, né l’annuncio di una secolarizzazione, né tanto meno una più equa distribuzione dei poteri. Chi fa affermazioni di questo tipo non sa quello che dice ma sa, certamente, di essere in “malafede”: il fatto stesso che non si possano esibire riscontri fattuali rende queste dichiarazioni non soltanto inutili (questo sarebbe il meno) ma dannose per l’intera umanità. Non sono tentativi di spiegazione, ma teorie ben congeniate per distoglierci dalla semplicità dei fatti e dal verificarne liberamente la loro valenza.

Per questo motivo occorre, come disse Benedetto XVI nel già citato discorso di Regensburg, allargare il «nostro concetto di ragione e dell’uso di essa», suggerendo – poi – che questo sarà possibile solo se «ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo: se superiamo la limitazione auto decretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza». Fin quando la ragione troverà la sua applicazione solo agli ambiti funzionali del sapere tecnico-scientifico, assisteremo a quella che potremmo definire un’ipertrofia di tale uso, e lasceremo tutto il problema dell’uomo a forze irrazionali, occulte e magiche a un tempo. E questo ci porterà a non riuscire a giustificare razionalmente un gesto come quello del Papa: anche chi è credente, a volte, bloccandosi di fronte all’imponenza di un atto così emblematico, non riesce a coglierne tutta la portata della ragione. Ma così non si fa altro che contribuire alla disintegrazione dell’uomo e alla rappresentazione di una patologia della religione, anche di quella cristiana.

Diviene, pertanto, necessario riacquistare un uso pieno della ragione, non ridotto strumentalmente o funzionalmente, ma aperto, atto all’ascolto. Così scriveva l’allora card. Joseph Ratzinger nel 1999 nell’Archivio Teologico Torinese: «Ciò di cui abbiamo bisogno è qualcosa di simile a ciò che troviamo in Socrate: una disponibilità in attesa, che si mantiene aperta e appunta lo sguardo al di là di se stessa».  Non si tratta, tuttavia, di rimanere bloccati a una razionalità pre-cristiana, quanto di un restare aperti all’infinito, a un Altro che viene e ci fa acquisire quello sguardo d’insieme impossibile all’uomo.

E questo, se si vuole, il grande lascito di Benedetto XVI: lui stesso mostra al mondo come l’esperienza della sua fede sia indissolubilmente unita a un uso “allargato” della ragione. In questo, Santo Padre, ci sentiremo sempre tuoi figli: il tuo gesto, infatti, non ci affranca dal nostro compito, anzi, chiede di noi, della nostra responsabilità di fronte al mondo, noi che siamo “gettati” nel mondo a testimoniare l’incontro del Logos con l’umanità.

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