Chissà, forse le attività di studio cominciate nel 2009 – anniversario centenario della nascita ufficiale (con il Manifesto di fondazione del 1909) del Futurismo, il primo grande movimento internazionale d’avanguardia artistica e non solo, dell’epoca moderna – non sono state particolarmente “futuriste”: nel senso che, fra tanti lavori significativi e meticolosi, fra tante iniziative prudentemente localizzate, è sembrato mancare qualcosa che si possa definire una svolta, o significativa novità di cambiamento, nella nostra immagine del Futurismo.
D’altra parte, insistere su questo senso di mancanza o nostalgia sarebbe in fondo una manifestazione d’ingenuità. Indietro non si torna, e quando il Futurismo viene definito (come di solito si fa) un’avanguardia “storica”, è bene tener presente che esso appartiene alla storia in due sensi differenti: il Futurismo ha un ruolo fondamentale (come detto) nella storia dell’avanguardia, ma al tempo stesso deve essere storicizzato come fenomeno che non si può ripetere. Certo, questo vale essenzialmente per tutti i movimenti culturali, artistici, ideologici: i quali sono astrazioni più o meno determinate, come frutto delle combinazioni di varie circostanze; e ciò che ne resta (quando merita di restare) sono essenzialmente i singoli contributi di personalità individuali. Ma appunto qui sta il problema: il problema, non tanto del Futurismo, quanto del suo fondatore.
Filippo Tommaso Marinetti si è dedicato con tanta generosità e tanto brillante esito al movimento che a un certo punto della sua vita egli fonda e che generosamente sostiene fino (letteralmente) alla morte, che l’identificazione fra lui e tale movimento risulta completa. Questa fortuna è stata anche in un certo senso la sua sfortuna, e si potrebbe dire che l’autore Marinetti è stato vittima del suo stesso successo come grande animatore culturale: alla fama del suo nome non si è ancora accompagnata un’adeguata conoscenza dei suoi scritti, così che la vasta e brillante opera letteraria di Marinetti – che non è stato solo un saggista un organizzatore un traduttore e un polemologo, ma anche un drammaturgo un romanziere un novelliere e soprattutto un poeta – è stata sovente ridotta a un manipolo di citazioni ad effetto (spesso e volentieri decontestualizzate, dunque esposte a fraintendimenti).
A questa ingiustizia si sta ponendo gradualmente rimedio (il ritmo della storiografia letteraria, come di ogni storiografia, è necessariamente più cauto e lento della storia che essa descrive – anche quando si tratta della storia di un’opera come il futurismo marinettiano, dominato dal culto della velocità). La difficoltà e la sfida nascono anche dal fatto che gli scritti di Marinetti rappresentano aspetti differenti, e a volte divergenti, della sua eccezionale personalità. Ed eccoci all’ultima “scoperta” in campo marinettiano: il romanzo finora inedito Venezianella e Studentaccio, scritto – o più precisamente, in larga parte dettato – nell’ultimo anno di vita dell’autore, tra l’autunno del 1943 e l’estate del 1944 (Marinetti muore nel dicembre del ’44).
Ho posto il termine “scoperta” tra virgolette perché, come spesso accade in questi casi, l’esperienza decisiva non è quella della percezione immediata dell’oggetto, ma quella della sua valutazione appropriata e della lunga esplorazione che a essa necessariamente consegue. Gli studiosi non ignoravano che fra le carte marinettiane inedite conservate nella biblioteca dei libri rari e dei manoscritti dell’università di Yale si trovava una coppia di versioni dattiloscritte di un testo chiamato appunto Venezianella e Studentaccio; un testo però così crivellato da errori di trascrizione che la sua stessa natura e completezza non risultavano chiare. Tale testo sarebbe potuto restare ancora per decenni ben custodito, certo (le biblioteche americane non lasciano che le carte letterarie marciscano nella polvere), ma reso invisibile proprio da questo diligente inscatolamento: una curiosità archivistica cui fare riferimento ogni tanto, e da cui citare qualcuno dei passi meno incomprensibili.
Ma a un certo punto un dottorando (Amerigo Fabbri) e un docente piegano la testa su questo sbiadito dattiloscritto dai caratteri saltellanti, lo leggono pian piano − e “scoprono” l’evidenza, che (similmente a tutte le evidenze) è difficile, come si diceva, da vedere attraverso il reticolo dei luoghi comuni e delle sistemazioni manualistiche: questo è un grande romanzo sperimentale, che sembra composto da uno scrittore nel pieno di una maturità vigorosa, non (come accade in realtà) da un uomo anziano e malato. Passano gli anni, passano i dottorandi; e a un certo punto, dopo varie visite e prudenti contatti, salta fuori da un archivio privato italiano il manoscritto originario − un fascio di fogli rilegati dentro un quadernone in pelle − vale a dire la fonte attendibile di quelle poco attendibili trascrizioni dattiloscritte conservate a Yale; comincia allora tutto un lavorìo di decifrazione e trascrizione che consente infine di ricostruire, una settantina d’anni dopo, il romanzo così come esso essenzialmente riflette la voluntas dell’autore (Filippo Tommaso Marinetti, Venezianella e Studentaccio, a cura di Patrizio Ceccagnoli e Paolo Valesio, introdotto da Paolo Valesio, Milano, Mondadori, 2013) A questo punto ci sarebbe molto da dire, nel solito e indispensabile contesto critico-filologico (analizzato, peraltro, nell’edizione citata): sulle fonti, il contesto sociale e letterario, lo stile ecc.
Ma qui si vuole cogliere l’occasione e la sfida di una sintesi: qual è veramente la posta in gioco − ovvero (ed è questa la domanda centrale, che ci trasporta dalla critica letteraria come tecnologia alla critica in senso pienamente umanistico; la critica non solo della letteratura ma anche della vita): questo gioco “veneziano”, vale la candela? La risposta è “Sì” − nettamente e, oso dire (anche se viene da un diretto interessato), obiettivamente “Sì”. Fra i primi recensori, è stata una poetessa colei che ha avuto il coraggio di dire quello su cui i professori nella loro distaccata cautela spesso non amano sbilanciarsi, quando ha parlato di “una scrittura instancabile […] alimentata da un’energia segreta, quella del genio, per una simmetria sorprendente fra città e romanzo”. Ma l’elemento essenziale dell’originalità di questo romanzo è l’empito e l’impeto verso la trascendenza. Un elemento a prima vista sorprendente, per un autore la cui immagine sembrava definitivamente consegnata a un certo discorso all’estremo, da poète maudit del modernismo; ma che in realtà era venuto maturando lungo tutto il corso dell’opera marinettiana.
Marinetti è stato un profondo poeta della materia, ma non è mai stato un materialista nel senso radicale e filosofico del termine. Ciò che accade nelle composizioni dei suoi ultimi anni (fra le più importanti in tutta la sua opera) è in sostanza questo: la vena spirituale che sempre era scorsa attraverso i suoi scritti fin dagli inizi pre-futuristi − una spiritualità sauvage, sincretistica, tardoromantica e per così dire spietatamente estetica, ma in cui l’anelito alla trascendenza era autentico − qui viene incanalata e concentrata in un senso più chiaramente religioso. Venezianella e Studentaccio sono protesi verso una fede che non si identifichi più totalmente con la progettualità estetica e con il patriottismo. Il fatto poi che questi due affascinanti personaggi siano raffigurati realisticamente anche nelle loro debolezze e contraddizioni, li rende psicologicamente credibili nella loro ricerca del trascendente.
L’ultima parola (una parola ritmata in corsa, in questo romanzo che rigorosamente rifiuta i segni di punteggiatura) spetta a Studentaccio, il quale a un certo punto della narrazione “fa da cantastorie” ed esclama: “Poiché un giorno Venezia entrerà anch’essa in paradiso sia raffinata la sua bellezza e quando sarà perfetta santificata e non vi stupite se siamo noi futuristi a voler compiere il miracolo poiché soli detentori dell’avvenire”.