Nella rigogliosa contea del Sussex, affacciata sulle irrequiete acque della Manica e turbata essa stessa dai primi esiti della sfida lanciata da Enrico VIII nei confronti della Chiesa di Roma, vivono Sir James e Lady (senza nome…) Torridon. La loro dimora a Overfield Court pare la cornice ideale per un rassicurante ritrovo familiare: i loro quattro figli stanno, infatti, per ricongiungersi a loro, giungendo da località differenti dall’evidente valore emblematico e simbolico: due, Ralph e Christopher, varcheranno i confini del Sussex provenendo, rispettivamente, da Londra e Canterbury; due, Margaret e Mary, entro quei confini resteranno, provenendo l’una da Rusper, l’altra da Great Keynes. Casualità “logistico-narrative”? Non pare…



Ralph, infatti, torna a casa da Londra, la città per antonomasia, dove opera al fianco di Thomas Cromwell, vicario-generale del re scismatico dal 1534, e avrà il gravoso onere ed il dilaniante onore di contribuire ad “incastrare” Thomas More. A Begham (tra Kent e Sussex, sede di una grande e antica abbazia dei cosiddetti white canons, tra le prime ad essere soppresse dai “visitatori” di re Enrico VIII nel 1537) Ralph si è incontrato con il fratello Christopher, che aveva invece appena lasciato la storica cathedral city di Canterbury (nel Kent) “dove aveva trascorso una settimana o due in compagnia del Signor Carleton, cappellano [cattolico] di famiglia” (p. 6). Fin da questi primi tratti “contestuali”, i due giovani non potrebbero essere più diversi per sensibilità, cultura, vocazione e ruolo: si ritroveranno alla fine nel più terribile dei luoghi londinesi dell’epoca Tudor e i loro dissidi troveranno struggente composizione in una finale invocazione a “My-my Lord!”.



Dal villaggio di Great Keynes nel Sussex – situato nella zona collinosa dei South Downs a poca distanza dalla località marina di Brighton e presente anche in un altro romanzo dello stesso scrittore di cui si dice in queste brevi note e intitolato By What Authority? (1904; Con quale autorità?, Rizzoli 2004) – muove verso Overfield Court una delle due figlie di Sir James e Lady Torridon, Margaret, accompagnata dal marito Nicholas Maxwell. La seconda, Mary, giungerà invece alla casa paterna dalla piccola abbazia benedettina di Rusper, soppressa anch’essa nel 1537.

Perché si è deciso di iniziare in un modo forse vagamente “tecnico-accademico” questa breve recensione della nuova edizione italiana de The King’s Achievement (1905) di Robert Hugh Benson (1871-1914), apparsa nel 2012 per i tipi della benemerita editrice veronese Fede e Cultura con il non felicissimo titolo Il Trionfo del Re? Per suggerire – visto che, con ogni evidenza, se ne sente ancora il bisogno! – che Benson (figlio minore di un Arcivescovo anglicano di Canterbury e sacerdote cattolico dal 1904) è scrittore letterariamente assai competente, come si intuisce dalla sintetica presentazione dei dettagli logistico-narrativi di cui sopra (le cui numerose implicazioni non è dato approfondire in questa sede).



Come molti altri (cattolici e non, sia detto per inciso), anche Benson meriterebbe – chi scrive lo ripete da tempo – non solo letture più adeguate e maggiore attenzione critica, ma anche vesti editoriali più accurate. Ciò non tanto per pur nobilissime ragioni agiografiche e devozionali o per meno nobili brame rivendicazionistiche, quanto piuttosto per le caratteristiche specifiche della sua ampia produzione letteraria, nella quale trovò respiro e versatilità il suo “progetto culturale”, ispirato da una fede profonda e da una coraggiosa creatività, ben consapevole della realtà del suo tempo.

Non casualmente, dunque, subito dopo la conversione (1904), la scelta letteraria operata da Benson fu quella di esplorare in alcuni romanzi la “scomoda” historical fiction ambientata nel periodo Tudor, con ben altre intenzioni rispetto a epigoni (rari) vicini a lui (quali Ford Madox Ford e Virginia Woolf) o vicini a noi (il nome di Philippa Gregory si affaccia alla mente con la sua manipolatoria invadenza…). Da quella scelta, la penna instancabile e versatile di Benson trasse romanzi “impeccabili” (secondo uno scrittore del calibro di Evelyn Waugh) come il citato By What Authority? (1904), The Queen’s Tragedy (1906; mai tradotto), Come Rack! Come Rope! (1912; mai tradotto) e, appunto, The King’s Achievement (1905), accurata e appassionata narrazione delle ferite inferte dallo scisma anglicano sulla carne viva della famiglia Torridon, che, come l’Inghilterra tutta, si spezza e sanguina per… Non una parola di più sulla trama: ai lettori il piacere della scoperta, che sarà ancora più piacevole se assistita da una paziente valutazione delle varie componenti testuali.

E – ahimé, absit injuria verbis – maneggiare la “nuova” edizione italiana di The King’s Achievementappena uscita per i tipi di Fede & Cultura richiede davvero molta pazienza per alcune ragioni che provo ad esemplificare sinteticamente.

Richiede pazienza la decisione (non infrequente da parte dell’editrice veronese, non sempre dichiarata, ma mai corredata di opportuni apparati esplicativi) di recuperare traduzioni “avite”, dal sapore antico e suggestivo (benché spesso di faticosa fruizione), eredità preziose di precedenti e sorprendenti protagonisti di un cattolicesimo culturale italiano perfettamente attrezzato nei confronti della lingua della Albione cattolica (e non solo). Nel caso della versione Fede & Cultura diThe King’s Achievement, la competente collaborazione di Francesca Salvi (della Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di S. Scolastica, Subiaco) ha consentito a chi scrive di reperirne le “radici” in una traduzione intitolata Tamigi Insanguinato: romanzo storico di don Ettore Cerato (Societas Sancti Pauli), pubblicata prima dalla Società Apostolato Stampa (Roma, 1948) e in seguito riproposta dalle Edizioni Paoline (Vicenza, 1970) con una introduzione di Davide Rondoni. Perché non specificarlo?

Richiedono altrettanta pazienza da parte di chi legge sia varie scelte traduttive, sia alcune sviste tipografiche (qualche che sia la loro fonte, “avita” o contemporanea). Qualche esempio? Non convince la traduzione del titolo (e non è cosa da poco), che, nella forma “riveduta e corretta” de Il Trionfo del Re, solo in apparenza si avvicina maggiormente all’originario The King’s Achievement: in realtà, rischia di comprometterne la sottile intenzione ironica, riferita al complesso dell’azione del sovrano scismatico e confermata dai titoli delle sezioni e delle sottosezioni del romanzo. Causano, inoltre, crescente irritazione “epidermica” durante la lettura numerose sviste tipografiche che si manifestano fin dalla data di pubblicazione dell’edizione inglese (1908, invece dell’effettivo 1905!) e già nella prime pagine del testo (in cui compare, ad esempio, il toponimo Beghan e non il corretto Begham). Non sarebbe stato agevole sottoporle ad una più accurata revisione editoriale?

Quisquilie da accademici, si dirà… No, cari lettori. Spero che concorderete con chi scrive che il genio (etimologicamente inteso come “potenza generatrice”) di Benson merita maggiore attenzione: la merita perché proposte editoriali (leggi: libri) più affidabili consentirebbero di valutarlo più adeguatamente, proprio perché “un libro si difende da solo”, come scrisse lo stesso Benson nella prefazione de La Religione dell’Uomo Semplice (1906). E la merita, con Benson, la letteratura tutta (quale che sia la sua matrice religiosa, ça va sans dire), perché se esiste un diritto alla lettura (ed esiste!), esistono anche doveri (e molti!) nei confronti di coloro e di ciò che leggiamo.

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