Il fascino di ciò che è autentico si impone con la semplice forza dell’evidenza. Risplende della luce segreta di una bellezza che da sola perfora la crosta dei luoghi comuni, delle abitudini consolidate, delle mode del conformismo dominante. Non ha bisogno dei toni sopra le righe, della parola urlata e violenta per attrarre e suggestionare. È come una mano discreta che ti viene offerta, per aiutarti a rimetterti in piedi e a introdurti in un cammino. Nei termini di un invito a seguire i passi di qualcuno che ha già percorso un’esperienza, e proprio per questo la apre umilmente come ipotesi a chiunque voglia mettersi sulla stessa lunghezza d’onda, il desiderio di tracciare una proposta a tutti accessibile è la trama di fondo che sostiene anche l’ultimo libro di monsignor Massimo Camisasca: Scuola di preghiera. L’esperienza della liturgia (Edizioni San Paolo, 2012).



Il titolo potrebbe ingannare. Accostato distrattamente, rischia di suonare come rinvio a un genere per addetti ai lavori: gli esperti di materie religiose. Qui, invece, è in gioco l’impostazione che alla vita come tale siamo chiamati a dare. Il discorso prende il suo senso dal fatto di concepirsi come la risposta a una “sete”, a un “desiderio”, a una “tensione”, spinti a riempire un vuoto che si sperimenta di non poter non colmare. Da soli non ci bastiamo. Non riusciamo ad avere piena consistenza. Franiamo nelle sabbie mobili della palude del mondo: lasciati a noi stessi, scivoliamo verso la fragilità di un implacabile corrompersi. Dal cuore che si scopre mendicante, si sprigiona come domanda il gesto supremamente realista della preghiera, in dialogo con un Tu il cui profilo emerge in modo misterioso dal fondo ultimo dell’essere che ci avvolge e ci viene incontro. Nella sua mossa iniziale, quando il cuore è stanco e nauseato, magari l’unico slancio possibile è quello di uno “stare davanti” al mistero drammatico della nostra sproporzione. Vorremmo tutto per noi, ma ci ritroviamo incapaci di esaurire l’attesa insaziabile che portiamo inscritta nella nostra natura. Allora la preghiera più istintiva può diventare un grido che si libera stridendo, e che nell’intensità del bisogno che lo trascina invoca una misericordia, l’abbraccio di una vera compagnia al proprio destino.



Camisasca insiste sull’idea che nell’esperienza umana di chi si affida all’amicizia di Cristo la preghiera ha bisogno di un terreno per crescere. Il seme che le dà vigore è il silenzio. Non si tratta, in primo luogo, della fuga dalle parole, e tantomeno di un ripiegamento egoistico nella prigione dell’io individuale. L’ottica va in un certo senso capovolta. Il silenzio fecondo a cui ci viene proposto di lasciarsi educare può essere immaginato come un grembo materno: è uno spazio aperto, una dimora accogliente che ospita il germe di una coscienza nuova, di una sensibilità che diventa così possibile custodire, allevare, far maturare, tanto più quanto si impara a esserle fedeli. 



Alla sua base ci può essere, per cominciare, un semplice “pertugio”, al limite anche minimo. Si può ridurre a una fessura angusta, in cui, però, prende pian piano a riversarsi il nutrimento di una intelligenza e di un respiro della ragione capaci di guidarci nel mare delle circostanze in cui siamo implicati. Può bastare un minuscolo punto di sosta, salvaguardato nello scorrere della giornata come regola per il bene di sé. Oppure vengono in soccorso le formule consacrate da una tradizione a volte millenaria, le letture e l’esame su di sé inseriti in uno spazio da ritagliare per concentrarsi su un lavoro che dovrebbe avere la dignità del primato nella nostra esperienza. È una scelta che genera, comunque, l’attaccamento a dei gesti anche molto elementari di memoria: gesti simbolici, di valore esemplare, che hanno la potenza di educarci a vivere l’istante presente come un momento voluto e amato da una Presenza che lo riempie, scavalcandoci da ogni lato.

Più ci si addentra in questa logica del silenzio che si fa scuola di vita, più diventa chiaro che non la si può contrapporre all’adesione piena e entusiasmante al flusso dell’esistenza di cui siamo protagonisti. Il silenzio non è un alibi per evadere dalle responsabilità e ritirarsi dall’azione. Anzi, il silenzio tende a riassorbire in sé, rischiara e riordina il fermento della vita che pulsa. Si carica dei volti, delle domande e dei bisogni che abbiamo incontrato. Aiuta a ricollocare ogni cosa nel suo giusto orizzonte, a giudicare, a possedere senza essere dominati. Diventa, o può diventare (si può desiderare che diventi), un po’ alla volta, lo sguardo con cui ci si misura con i dettagli anche più materiali e impegnativi della propria traiettoria umana. Qui si coglie forse il lato più avvincente della proposta pedagogica di monsignor Camisasca: al centro sta l’introduzione della persona nell’esperienza della preghiera (e del silenzio che la fa vibrare), ma la preghiera è agganciata alla vita intera della persona, agisce e si dilata in essa come lievito che rende nuova la pasta in cui è gettato.

Due brevi citazioni possono essere sufficienti: “Il silenzio è una ‘distanza nel possesso’ che permette di stringere la vita con più verità, di essere più implicati nei rapporti e nelle azioni, più padroni di quello che viviamo. In esso emerge il volto di Colui che possiede ogni cosa, come un amico dimenticato che torna a bussare alla nostra porta e riempie la stanza di un sapore antico e buono. Siamo così condotti alle radici più profonde della realtà, alla verità delle cose e delle persone, alla verginità” (p. 23). E ancora: “Il silenzio vissuto permea tutta la vita, come una luce che, penetrando dalla fessura di una finestra, inizia a riscaldare tutta la casa. A poco a poco cambia il modo di lavorare in ufficio, di preparare la cena ai figli, di ascoltare gli amici. Le parole acquistano una profondità nuova e, attingendo a sorgenti più pure, diventano più essenziali” (p. 25).

Se “il silenzio ha un influsso su tutto”, si capisce perché Camisasca non si stanchi di sottolineare la “forza trasformatrice” dello sguardo della fede sulla realtà concreta della persona che ama, lavora, studia, fa politica. Nulla ne può rimanere indenne. Tutto può essere rigenerato, dall’interno. Leggendo il volume, siamo aiutati a percepire quali sono i frutti più sostanziosi a cui conduce l’immersione nell’universo della preghiera cristiana. Ammiriamo il suo strutturarsi maturo, secondo il modello della grande preghiera della tradizione della Chiesa, il suo ancoraggio alla fisica oggettività del sacramento, l’intreccio con l’arte del canto, l’inevitabile espandersi della preghiera del singolo nel tesoro della liturgia architettata per perpetuare l’avvenimento di Cristo che si rende incontrabile dagli uomini e li salva.

Ma non ci sarebbero i frutti senza le radici; e queste morirebbero, se private dei succhi che le irrorano muovendo dalle buie profondità della terra. La vita intera dell’uomo è come un albero che si innalza verso il cielo: niente rami, nessuna fioritura, fine di ogni miracolo prodigioso di crescita, quando si tagliano i ponti con il fondamento da cui scaturisce la chimica misteriosa che rinnova senza sosta il ciclo stupefacente della vegetazione. “Occorre la solidità dell’albero, perché sboccino i fiori sul ramo” (p. 78). E non ci può essere albero robusto senza radici nascoste, annodate là dove nessuno le vede. Se si rattrappiscono queste, è inutile poi lamentarsi per la miseria dei frutti.