Giulio Sapelli entra nel cuore dell’America. Di quella che in spagnolo si chiama America, che non significa Stati Uniti, ma quella scoperta da Cristoforo Colombo, quella che va dal Messico al Perito Moreno. Sapelli presenta il suo Diario Sudamericano (ed. Guerini e Associati) come una sorta di libro di memorie, nel quale non mancano gustosi riferimenti letterari o musicali, compagni come Borges, Gabriela Mistral o Schuman.
Sono i ricordi dell’uomo che dagli anni 70 fino alla fine del secolo scorso ha viaggiato in Argentina, Cile, Ecuador, Brasile e Perù. Che in prima persona ha vissuto l’esperienza dei popoli che lottavano contro le dittature militari o che volevano costruire delle democrazie mature. Del militante che collaborava con l’opposizione al franchismo e che arrivava fino a Barcellona, in viaggi molto pericolosi, per portare sostegno a chi combatteva contro la dittatura. Dell’uomo di sinistra che non ha mai visto con simpatia la rivoluzione cubana (“Cuba mi era sempre parsa un’avventura sconsiderata e incomprensibile”), che ammirava la presenza e l’opera della Chiesa cattolica. Dell’osservatore attento che si rende conto che “il Sud America era semmai qualcosa di totalmente diverso dall’elogio della dittatura. Era la devozione mariana”. Dell’autore libero da schemi che può scrivere il capitolo “E’ forse questa la carità?”, nel quale si lascia colpire dall’amore che nasce dal cristianesimo.
Il libro è il racconto di un’esistenza vissuta con passione in cui appaiono come flash le grandi amicizie, gli incontri pieni di grandi orizzonti, senza quella ristrettezza così tipica e asfissiante del piccolo mondo borghese. Diario Sudamericano è certamente un esercizio di memoria, ma il lettore può trovarci chiavi attualissime su quello che succede in questo momento in America Latina. Nel dipingere, per esempio, il fallimento di Alfonsín in Argentina nei primi anni 80, Sapelli spiega che la sua presidenza avrebbe dovuto superare il tipico abisso sudamericano, quello “che separa desideri e realizzazione, ideologie giusnaturalistiche e cruda realtà della lotta per il potere economico e politico”.
Non è forse questo l’abisso che continua a esserci trent’anni dopo quando, nonostante il recente grande sviluppo economico, il consolidamento democratico continua a essere il principale obiettivo da raggiungere? Quello che Sapelli chiama “l’abisso tra desideri e realizzazione” forse è una delle chiavi storiche che si sono rese evidenti nelle commemorazioni dei bicentenari delle indipendenze. La rivoluzione di Bolívar e quella di tanti altri, che scosse l’America di lingua spagnola 200 anni fa, infiammata da grandi ideali, si scontra con la debolezza di un soggetto, spesso incapace di raggiungere un’istituzionalizzazione stabile. L’americanismo e il nazionalismo sono, di fatto, ritratti dall’autore come le due forze che paralizzano tutti i tentativi di trasformazione e modernizzazione. Vizi che erano già presenti nella rivoluzione originaria.
Nell’instabile Argentina di Alfonsín, Sapelli scopre un affascinante giardino giapponese che subito utilizza come una metafora enigmatica non solo del Paese, ma di tutto il continente. È la riserva di una grande cultura tra le classi alte, che si mantiene come “un baluardo contro la barbarie in potenza delle masse nell’assenza di classi dirigenti e di minoranze organizzate illuminate che possano educarle e quindi guidarle”. Queste sono le parole con cui si vede che Sapelli, senza acredine, ha compreso il dramma dell’America: la mancanza di una classe dirigente che serva il popolo. Qualcosa di attualissimo.
Sapelli descrive con dolore un’America invertebrata, senza società civile. Il Cile, che dopo Pinochet è stato capace di costruire la “concertazione”, è l’eccezione. Ma, con un’ampiezza di criterio che pochi hanno nell’affrontare questo tema, Sapelli è capace di evidenziare che Allende, lontano dall’essere una soluzione per il Cile degli anni 70, quando il consenso si costruiva in breve tempo, si trasformò in un grave problema. Questa libertà e precisione di giudizio nel valutare il governo marxista di Allende è quello che dà autorità morale a Sapelli. Chi ha visto la situazione sul campo ha più intelligenza degli intellettuali che nel parlare di quegli anni ancora si lasciano trasportare dalle mitologie falsamente progressiste.
Sapelli è durissimo nel criticare le dittature, ma allo stesso tempo dimostra una gran libertà nel segnalare che non si basavano sul nulla. Se si sono mantenute in piedi è stato perché hanno imposto disciplina sociale dove erano state rotte le regole che rendevano possibile la convivenza e la prosperità. Un’altra chiave decisiva, questa, per capire il presente. La stessa precisione il lettore la trova quando viene descritto il peronismo, un labirinto nel quale addirittura gli stessi argentini spesso si perdono.
Leggendo le pagine di Sapelli, il lettore resta con il desiderio che quello sguardo esperto, certo e appassionato si possa posare di più sul presente. Speriamo che l’autore lo faccia in un altro libro. Tutti gliene saremmo grati.