Nel dicembre 2012 il ministero dell’Istruzione si è impegnato ad inserire lo studio dell’opera di Grazia Deledda (1871-1936) nei programmi scolastici, perché la scrittrice sarda «merita di essere un faro della letteratura italiana, per la sua storia, per la sua grandezza storica e culturale, per aver decantato come nessuno il fascino e la profondità della sua terra» (a detta del deputato sardo Mauro Pili). Si spera così di colmare una mancanza grave, ancor più sentita quest’anno che si celebrerà il centenario della pubblicazione di Canne al vento (1913).
«Celebrare» deriva dall’aggettivo latino «celeber» che significa «frequente», «numeroso». Il verbo «celebrare» è, quindi, quanto mai opportuno se riferito alla condizione in cui versa oggi la conoscenza di Grazia Deledda, che, dopo il grande successo ottenuto in vita, è caduta negli ultimi decenni in un’immeritata quanto strana dimenticanza, se si pensa che è una delle più grandi scrittrici, una delle più prolifiche (trecentocinquanta novelle, trentacinque romanzi oltre che poesie), diventato premio Nobel, prima di molti altri in Italia. Il primo letterato italiano ad essere insignito fu Giosuè Carducci nel 1906. La Deledda gli seguì nel 1926, prima del tributo a Luigi Pirandello (1934), che era già noto a livello internazionale per I sei personaggi e Enrico IV.
In dieci anni (tra il 1926 e il 1934) furono insigniti del Nobel due autori italiani, tra l’altro due isolani, una sarda e un siciliano. Seguiranno nella teoria dei letterati italiani premiati Salvatore Quasimodo (1959), Eugenio Montale (1975), Dario Fo (1997). La Deledda rimarrà l’unica donna. Molte sue opere, tra l’altro, sono state anche trasposte a livello cinematografico (tra queste Cenere, L’edera, Canne al vento). Per questo motivo interrogano sia l’oscurità in cui è caduta in questi decenni sia lo spazio pressoché assente a lei riservato negli studi superiori. Chiedete a qualcuno se la conosca o se abbia letto i suoi romanzi. Ora, se è vero che a ragione Dante scrive che «non è il mondan romore altro ch’un fiato/ di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,/ e muta nome perché muta lato» (Purgatorio XI), è anche vero che è dovere di ciascuno di noi procrastinare la memoria degli uomini e delle opere meritevoli.
Convinta che non sarebbe mai riuscita «ad avere il dono della buona lingua», come rivela giovanissima allo scrittore Enrico Costa, a causa dell’influsso troppo forte della cultura e del dialetto sardi, la Deledda si forma con cura sulle grandi opere classiche (Bibbia, poemi omerici), sugli autori della tradizione italiana (da Tasso a Manzoni), sui contemporanei, dai romanzieri francesi (Hugo, Balzac) ai russi (Tolstoj, Dostoevskij) agli italiani (D’Annunzio, Fogazzaro, Verga).
Conosce anche la produzione di un’altra grande poetessa italiana, nata l’anno prima (1870), quell’Ada Negri che sarebbe anche lei sprofondata, dopo la grande fama in vita, in un precoce oblio. «Le sue predilette frequentazioni […] stanno nella sua esperienza più come un fatto vissuto che come un fatto letterario» (Emilio Cecchi).
Verga, che è autore di quello che a torto o a ragione è considerato il secondo più grande romanzo dell’Ottocento italiano, quei Malavoglia che ottennero un successo di critica e non di pubblico, senz’altro è un riferimento importante per la scrittrice sarda. In realtà, però, le differenze tra la Deledda e Verga sono notevoli.
Basti riflettere sul romanzo Canne al vento. In breve ecco la trama. La nobile famiglia Pintor, comandata da Don Zame, ha quattro figlie: Ester, Ruth, Noemi, Lia. Quest’ultima, la più giovane, è l’unica che riesce a fuggire dalla prepotenza esercitata dal padre, grazie alla complicità del servo Efix che la ama segretamente. Mentre Lia fugge, per impedire il suo inseguimento, Efix uccide il padrone. Ora, negli anni, le ricchezze della famiglia scemano. Il servo rimarrà fedele alle sorelle Pintor compiendo, così, un viaggio di espiazione. «È come un pellegrino con la piccola bisaccia di lana sulle spalle e un bastone di sambuco in mano, diretto verso un luogo di penitenza: il mondo». Quando ritorna nella famiglia Pintor don Giacinto, figlio di Lia, che è dedito al gioco d’azzardo, Efix offre la propria fatica e sofferenza anche per lui. Fino alla fine il servo si voterà alla felicità altrui, come quando Noemi si sta per sposare con don Predu e lui, ormai morente, cerca di prolungare la sua vita per non guastare il matrimonio. Allora fa chiamare il prete e si confessa. Racconta il narratore: dopo «non parlò più, non si lamentò più». Efix esclama: «Come sono contento! Adesso posso morire». Ad Efix è lasciata la confessione su chi sia l’uomo: una canna al vento. «La sorte è il vento. […] Perché questa sorte? Dio solo lo sa. Sia fatta allora la sua volontà».
In un mondo in cui ci sono la sofferenza e la fatica come dato ineluttabile l’uomo può accettare la volontà di Dio o rifiutarla. La condizione umana non è, però, di solitudine e la grande novità è che il peccato può essere redento. Proprio la consapevolezza del peccato è l’origine della dedizione e dell’offerta della vita di Efix. Tutta la vita, ogni nostra azione, il nostro stesso corpo possono diventare offerta e preghiera, per la redenzione del nostro peccato e per la felicità e la salvezza altrui. La fede porta l’uomo ad operare al meglio nella consapevolezza che tutto dipende da un Altro. All’inizio del romanzo, dopo che Efix ha «lavorato tutto il giorno», mentre «in attesa della notte […] per non perder tempo intesseva una stuoia di giunchi» e «pregava perché Dio rendesse valido il suo lavoro», si chiedeva: «Che cosa è un piccolo argine se Dio non lo rende, col suo volere, formidabile come una montagna?».
La Deledda sa descrivere nei suoi personaggi il dolore per il male compiuto che diventa riconoscimento di una presenza e fecondità di vita e di azione. Leggiamo nel romanzo: «Efix s’inginocchia ma non prega, non può pregare, ha dimenticato le parole; ma i suoi occhi, le mani tremanti, tutto il suo corpo agitato dalla febbre è una preghiera». La stessa realtà sembra rendere gloria a Dio («la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le euforbie odoravano lungo il fiume»). Efix sa che non è solo, perché «donna Ester, la più vecchia, benedetta ella sia», si ricorda «di certo di lui peccatore:» basta «questo perché egli si» senta «contento, compensato delle sue fatiche». La presenza del peccato come prova nella vita, se guardata e accettata, può esaltare la parte più alta e bella dell’umano. La consapevolezza del male compiuto e di quello di cui siamo capaci diventa la possibilità di comprendere che la necessità di una redenzione e di una salvezza non possono che provenire da un Altro. La nostra redenzione inizia già in questa vita, come mostra il vecchio servo Efix.
Nei Malavoglia di Verga dominano la «religione del lavoro», che può essere accettata (come da Padron ’Ntoni) o rifiutata (come dal Giovane ’Ntoni o da Lia), e un rigido fatalismo deterministico, per cui alla fine tutti i personaggi sono dei vinti, anche qualora riuscissero a riscattarsi dal punto di vista sociale, perché non possono davvero cambiare la propria vita, non sono davvero liberi. In Canne al vento, invece, «ogni uomo può assumersi la responsabilità di cambiare le cose. Nonostante la fragilità e il peccato, anche un servo assassino diventa colui che muta le vicende in un bene per tutti» (Maddalena Bertolini).