«Quando Pilato chiese a Cristo: che cos’è la verità? Formulò la domanda con la quale si determinò la sorte del cristianesimo in Europa. Per questo si estese intellettualmente il cristianesimo in Europa: seppe dare un significato alla parola “verità” tale da permettere di credere alla possibilità di accogliere nel suo seno la aletheia dei greci».



Queste parole scritte quasi un secolo fa dal giovane filosofo Xavier Zubiri (1898-1983) sono identificativi dell’orizzonte filosofico di uno degli autori più importanti del panorama iberico del XX secolo. Allievo di Ortega y Gasset e dei più noti pensatori del XX secolo – Edmund Husserl e Martin Heidegger –, e maestro della più nota scrittrice spagnola María Zambrano, Xavier Zubiri deve la sua notorietà soprattutto a un’opera sistematica dedicata al grande problema dell’intelligenza, Intelligenza senziente, pubblicata in tre volumi agli inizi degli anni 80.



Meno noto al grande pubblico, Zubiri coglie da subito quale sia il nodo culturale della modernità: il problema della verità in rapporto alla cultura contemporanea. All’idea di una verità pensata come disvelamento e mutevolezza, il filosofo spagnolo contrappone una verità come “incontro”. La conoscenza della verità è possibile solo mediante qualcosa di precedente alla stessa conoscenza: mediante un incontro che precede il conoscere. Conosciamo la verità poiché è la verità stessa che si fa incontro all’uomo, così che la conoscenza della realtà è, innanzitutto, conoscenza del suo rapporto con Dio, del suo esser dato, creato. L’idea greca della conoscenza come teoria cede il posto alla contemplatio, tanto che la domanda originaria del nuovo sapere filosofico è la seguente: com’è possibile che le cose siano qualcosa e contemporaneamente niente? Com’è possibile che sorgano all’essere dal niente? 



In questo modo la questione dell’essere delle cose non ha più a che fare con il problema della traiettoria attuale del movimento, ma con l’avverarsi della creazione: «Essere significa esser-creato». La traiettoria dell’orizzonte filosofico europeo non può non fare i conti con una ulteriorità: l’uomo non può incontrarsi in modo immediato con se stesso, ma mediante il riferimento a Dio, cioè con lo sguardo fisso sull’infinito trascendente. Ma cosa significa incontrare la verità tenendo lo sguardo fisso sull’infinito? Cosa s’intende per trascendente?  «La trascendenza non è un esistere al di là delle cose, bensì al contrario, essa è un modo di essere in esse, quel modo secondo cui esse non sarebbero reali in nessun senso se non, per così dire, includendo formalmente nella loro realtà, la realtà di Dio, senza per questo che Dio sia identico alla realtà delle cose», scrive nell’opera L’uomo e Dio. Il concetto di trascendenza indica quindi un carattere del reale, un carattere delle cose nella loro realtà più profonda: è una presenza formale e intrinseca di ogni cosa, attraverso cui si manifesta il fondamento proprio del reale in quanto tale. La trascendenza è il modo attraverso cui Dio sta nelle cose, esiste in esse. È pertanto una trascendenza nelle cose, al fondo di esse, e non al di là di esse; allo stesso modo, andare a Dio significa penetrare sempre più nelle cose stesse.

Per questo motivo, incontrare la verità significa porsi in una condizione di continua ricerca: ciò che s’incontra non può mai essere una verità assoluta propria di un’intelligenza assoluta. Il carattere senziente dell’intelligenza pone l’uomo in una prospettiva di conoscenza parziale e incompleta. Tale carattere di finitudine viene dichiarato da Zubiri con le parole del De Trinitate di Agostino d’Ippona: «Ricerchiamo come ricercano coloro che tuttora non hanno incontrato, e incontriamo come incontrano coloro che tuttora devono cercare, poiché quando l’uomo ha terminato qualcosa, non ha fatto altro se non cominciare». La radicale limitazione della conoscenza umana viene espressa con il carattere formale dell’incontro: l’intellezione razionale incontra la realtà che può coincidere o non coincidere con un abbozzo di possibilità date dall’esperienza.

La ragione vuole conoscere senza mai fermare il suo processo: è una continua ricerca, e non sarebbe tale se non ricercasse incontrando sempre ciò che si è cercato in quanto principio per una ricerca ulteriore. L’incontro conduce, dunque, a una verifica di quanto si è indagato per poi continuare con un’ulteriore indagine. Per questo si può dire che la verità si dà nei termini di una verificazione: «Verificare è incontrare il reale, è un compimento di ciò che abbiamo abbozzato che il reale potrebbe essere: in questo incontro e in questo compimento si fa attuale (facere) il reale nell’intellezione (verum)».

È la realtà, dunque, ciò che è all’origine di ogni tentativo di verificare razionalmente ciò che si è appreso. La ragione compie il suo percorso conoscitivo di verifica a partire dal reale già attualizzato nell’apprensione primordiale di realtà. Per questo motivo il problema della ragione non è mai quello di «verificare se è possibile che la ragione giunga alla realtà, ma proprio il contrario: in che modo occorre mantenerci nella realtà nella quale già stiamo. Non si tratta di giungere a essere nella realtà, ma di non uscire da essa».

Da un punto di vista antropologico, ogni verifica dipende strettamente dagli incontri che accadono nel corso della vita dell’uomo. E questo risulta vero a partire da una mera constatazione biologica: ogni uomo, infatti, è concretamente situato all’interno di tre generazioni, attraverso cui si dà forma concreta a quello che Zubiri chiama il “carattere pubblico della verità”. E che la verità sia pubblica è dovuto, innanzitutto, a un mero fatto naturale, attuandosi attraverso una vera e propria “consegna” tra generazioni: vale a dire, attraverso una tradizione. Ma cos’è una tradizione? Una semplice trasmissione di concetti o di fatti? Certamente una tradizione non sarà mai possibile senza una trasmissione di eventi. E, tuttavia, non si può dire che la tradizione dipenda soltanto da una semplice trasmissione. C’è forse qualcosa di più originario, di più profondo che Zubiri indica con il termine di storicità, intesa non come il semplice trascorrere delle cose poiché, in questo senso, non si avrebbe alcuna dimensione storica degli eventi. La storicità non dipende da ciò che passa, bensì da ciò che rimane. 

Ciò che chiamiamo, dunque, tradizione è una presenza che permane: non ci interessa la storia per se stessa ma in quanto è pervasa da qualcosa che ci facilita nella comprensione della nostra esistenza. Ciò che succede passa, tramonta, così come tutta la realtà. E la realtà nel suo accadere storico non è ciò che costituisce la tradizione: «quando il padre attua sul figlio per trasmettergli qualcosa, gli trasmette la verità. Ma certamente ciò che è essenziale e importante non è questa verità che gli trasmette, ma qualcosa di più profondo, vale a dire, le possibilità che questa verità trasmessa apre».

Ma questo carattere pubblico della verità svolge anche un compito più politico che oggi sembra essere destinato all’oblio. Come ricordava Jürgen Habermas, la legittimità di una carta costituzionale deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Questa forma ragionevole non può riguardare solo la competizione per una maggioranza, ma deve caratterizzarsi anche come “processo di argomentazione sensibile alla verità”. Normalmente nella prassi politica – come si è visto nel dibattito italiano che ha preceduto le elezioni – ciò a cui mirano le formazioni partitiche è il conseguimento di maggioranze senza necessariamente tener conto di quell’interesse generale frutto di una sensibilità verso la verità comune. E tuttavia, senza un rimando alla storicità, a una verità pubblica che giochi il suo ruolo nella genesi e formazione dei programmi, l’argomentazione politica è destinata immancabilmente a un dibattito povero di idee e di prospettiva per il futuro che si fa sempre più incerto e difficile soprattutto per le nuove generazioni. 

Occorrerebbe ripartire da un’idea di verità comune che sappia declinare in forme condivise quel bene comune di cui tutti parlano senza saperne origine e significato. Senza una verità comune anche l’opzione per il bene potrebbe divenire l’esito di una maggioranza espressa senza ragioni.