Anno Domini 1954. La guerra è finita, dimenticata dall’Italia del boom che corre allegra verso il futuro godendosi i frutti della ricostruzione. Quali siano le forme di questo futuro, quale il fine che lo signoreggia, poco importa. Come scriverà Rodolfo Quadrelli pochi anni più tardi, da quando il Romanticismo ha inventato le categorie di antico e moderno «non si sceglie più tra verità ed errore: si è moderni» e tanto basta.



E la modernità, la corsa al progresso verso la liberazione da strutture e schemi mentali antiquati, è di casa nell’Italia degli anni Cinquanta, di quei Cinquanta in cui i poeti – persino i poeti – contavano qualcosa agli occhi della gente e le cui dispute letterarie non erano perciò solo tali, ma infiammavano, o almeno lambivano con il loro ardore anche la vita dei non addetti ai lavori. Disputa principe del tempo era quella sul realismo, certificata nel 1954 da uno scambio di missive non proprio in punta di fioretto sulle pagine de La Chimera. Autori delle missive: Pier Paolo Pasolini e Mario Luzi. 



Di Pasolini sappiamo tutta la verità e tutto il mito. Ma chi era Luzi nel 1954? Un insegnante liceale di quarant’anni e al contempo – nonostante l’età che oggi diremmo giovanissima – una figura già così istituzionale nel mondo della poesia da essere attaccato come segno del vecchio. Di questa vecchiezza lo accusa Pasolini sulle pagine della Chimera, e a queste accuse – a quella in primis di vivere in un iperuranio idealista senza legami con il reale – egli risponde con una meravigliosa difesa delle ragioni dell’umano su quelle del sistema, del dramma dell’uomo sull’ingiustizia sociale: «Convinto che il marxismo interpreti tutta la realtà […] egli [Pasolini] accusa la sua e la comune tenacia borghese di impedire quella fatale adesione a causa, dice, della “violenza e l’inerzia di una psicologia determinata dalla storia”. […] Ma teniamo ad affermare che per coloro per i quali il marxismo non interpreta tutta la realtà, e non sono così pochi, il dramma, ben diverso, della conoscenza, antico quanto l’uomo, elevato dai Greci, eccitato dal Cristianesimo, complicato dalle filosofie moderne, continua ed è esso stesso vita e fonte possibile di poesia come fu sempre» (Replica di Mario Luzi a Pierpaolo Pasolini, Forse ad un tramonto, «La chimera», I, 7, ottobre 1954).



Ai punti, non v’è dubbio, vince Luzi e la storia successiva, letteraria e non, non farà che confermarlo. Ma Luzi, uomo vero e drammatico, non si contenta di avere ragione: vuole scoprire di più ciò che sa, amare di più quelle verità di cui il cuore e l’esperienza gli dettano l’intuizione. Per questo la battaglia sul realismo con Pasolini e gli altri della rivista Officina non si risolve in lui come un vittorioso muro contro muro. Le ragioni parziali e deboli degli avversari lo lavorano, trovano accoglienza, inverano e maturano il suo sguardo e le sue certezze. Luzi vive e, non visto, guarda. 

E quando nel 1963 pubblica la prima edizione di Nel magma, molti nel mondo dell’avanguardia e di un esausto neorealismo fremono di piacere e di sorpresa: vittoria, abbiamo piegato il vate! Leggiamo infatti le sue nuove poesie e troviamo versi lunghi dall’andamento apparentemente prosastico, il tipico cantato luziano costantemente spezzato, l’io parlante immerso, quasi travolto, nelle cose e non osservatore al loro margine. E poi le parole! Parole come «ronzio», «transistor», «radio», «Eichmann». Più realtà, più realtà, il vate si è piegato! Ha capito il suo errore e adesso si mette a rincorrere, tentando di essere come al solito il primo della classe, il più avanguardista di tutti!

Basta però leggere la poesia iniziale, Presso il Bisenzio, per accorgersi come tutto questo non sia vero. Quella di Luzi non è una resa, né letteraria né tantomeno ideale. I suoi versi lunghi sono sempre modellati sul ritmo dell’endecasillabo, del settenario e dell’alessandrino, quegli stessi moduli musicali che egli adotta in fogge innumerevoli lungo tutti i suoi settant’anni di carriera. Il ritmo e la linea melodica, rispetto al solito, sono più simili a quelli di una suite che non a quello di un lieder, più Pink Floyd che Beatles, ma è sempre musica, altissima musica e quanto alle parole, beh, quando uno sa dirle, quasi non conta il loro suono, ma come le si fa suonare (ricordiamo con cosa Dante fa rimare «trangugia»…)

Non è una resa letteraria, quindi. Tantomeno è una resa ideale. Al contrario, nella narrazione breve che la poesia rappresenta è condensata tutta la polemica di quei nove anni, tutto il sangue amaro e il dolore per le accuse di astrattezza e di scarso impegno sociale. C’è tutta la certezza che io e te siamo sulla stessa barca e viviamo lo stesso desiderio – più realtà – ma tu hai bisogno di odiarmi e non sai farlo, io invece ho bisogno di amarti e non so farlo. 

La poesia ci porta subito in medias res, lungo una gora annebbiata in una sera di gelo. Da questo scenario, si fanno incontro a Mario, la voce che parla, «quattro/ non so se visti o non mai visti prima». Il primo approccio è un atto di accusa e di esclusione. La colpa? Spiritualismo: «Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,/ mi si fa incontro, mi dice: “Tu? Non sei dei nostri./ Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta/ quando divampava e ardevano nel rogo bene e male”». È un dialogo apparente, in cui all’incalzare dell’accusatore Mario risponde frasi brevi e apparentemente fuori centro, così apparentemente fuori centro da fare innervosire l’interlocutore: «“Ci fu un solo tempo per redimersi” qui il tremito/ si torce in tic convulso “o perdersi, e fu quello”».

Insoddisfatto, l’accusatore lascia cadere il discorso e si allontana seguito dai suoi. Ma il più giovane e il più santo dei quattro non resiste e si attarda insieme a Mario, ansioso di capire il perché di una distanza che lo corrode. Ed è in questa scena meravigliosa che si rivela tutta l’astrattezza degli accusatori e la concretezza estrema di Mario. Si comincia con la ripetizione dell’accusa, che per la prima volta viene formulata in modo chiaro: «“O Mario” dice e mi si mette al fianco/ per quella strada che non è una strada/ ma una traccia tortuosa che si perde nel fango/ “guardati, guardati d’attorno. Mentre pensi/ e accordi le sfere d’orologio della mente/ sul moto dei pianeti per un presente eterno/ che non è il nostro, che non è qui né ora,/ volgiti e guarda il mondo come è divenuto,/ poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,/ non la profondità, né l’ardimento/ ma la ripetizione di parole,/ la mimesi senza perché né come/ dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine/ morsa dalla tarantola della vita, e basta». 

Vivi e lascia vivere, pensiamo alle cose vere, dice il giovane compagno. Proprio mentre lo dice, tuttavia, alla sua anima sensibile, non ancora fatta dura come quella dei suoi sodali, sfugge di bocca la vera radice dell’accusa, il vero scandalo: «Tu dici di puntare alto, di là dalle apparenze,/ e non senti che è troppo. Troppo, intendo,/ per noi che siamo dopo tutto i tuoi compagni,/ giovani ma logorati dalla lotta e più che dalla lotta, dalla sua mancanza umiliante”». A questo «sacco doloroso» che il ragazzo vuota ai suoi piedi, all’ansia logorante per la lotta, anzi per la sua umiliante mancanza, Mario non può rispondere altro che della propria lotta, della propria fedeltà a se stesso («“Lavoro anche per voi, per amor vostro”») mentre il suo giovane amico, come il giovane ricco del racconto evangelico, si lascia risucchiare triste dalla folla: «“O Mario,/ com’è triste essere ostili, dirti che rifiutiamo la salvezza,/ né mangiamo del cibo che ci porgi, dirti che ci offende”».

La scena incalza e volge al suo culmine, finché la risposta di Mario fa scoppiare in lacrime il ragazzo che fugge via: «“O Mario, ma è terribile, terribile tu non sia dei nostri”». Mario rimane solo «a misurare il poco detto,/ il molto udito», a meditare sul triste destino suo e degli altri protagonisti di questo incontro, quello di «convivere in uno stesso tempo e luogo/ e farci guerra per amore». Ma è in questa apparente disfatta, in questo apparente fatalismo che spunta invece la ragione della speranza: non il divenire delle cose e della storia, ma l’esserci delle cose e della storia. La certezza cioè che a noi qui e ora non sia dato altro che agire e guardare, agire e pregare, incamminati lungo un senso la cui presenza è già intuita nella presenza stessa del mondo: «“Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro,/ mi dico, potranno altri in un tempo diverso./ Prega che la loro anima sia spoglia/ e la loro pietà sia più perfetta”».