“Internet segna la vittoria della democrazia, perché nella Rete ognuno vale uno”. “Internet aumenta e alimenta la partecipazione democratica al punto tale da costringere dittatori di lungo corso a fare le valigie (come accaduto in Tunisia ed Egitto)”. “Internet crea comunità, perché connette in rete persone diverse e lontane”.



Domanda: siamo all’inizio di una nuova epoca dell’umanità dove la verità è a portata di Web, la Rete diventa il nuovo tribunale del popolo, l’informazione non ha più bisogno di giornali o di tv e le leggi si faranno attraverso forme di democrazia diretta? O siamo alle prese con un esempio di cyberutopismo con possibili effetti devastanti?



Che non si tratti di questioni peregrine o inerenti semplicemente a un futuro lontano lo si capisce bene ascoltando il Casaleggio-Grillo pensiero durante i tg o consultando il blog del fondatore del Movimento 5 Stelle. La “guerra” annunciata da Grillo e Casaleggio con un libro-manifesto nell’autunno del 2011 (“La Rete contro i partiti. Siamo in guerra”, Chiarelettere) è già in atto. Ed è una battaglia – per ora solo verbale e ideologica – “tra due mondi”.

Ma le due diverse concezioni della realtà a cui fa riferimento il fondatore del M5S non divergono sulla concezione dell’uomo, sull’organizzazione del lavoro, sul modo di raggiungere la felicità, bensì hanno per discriminante la Rete. Essa, taumaturgicamente, eliminerà i giornalisti di professione per creare il “prosumer” (una figura che è al tempo stesso fruitore e produttore di informazione), metterà in soffitta i partiti e persino i parlamenti (perché i programmi politici e le leggi saranno scritti dai cittadini internauti), risolverà democraticamente il problema della verità («In rete – scrivono Casaleggio e Grillo – essa è a Google search away, un click di Google»).



Poiché queste idee non camminano più solo sulle gambe di un comico e di un guru di Internet, ma hanno dato vita a un partito che conta in Italia 162 parlamentari, la nostra riflessione deve essere più attenta. Anche perché, come ha scritto il sociologo Evgenij Morozov, uno dei più acuti nemici del cyberutopismo, «le bolle speculative, una volta scoppiate, hanno conseguenze letali; le bolle democratiche, invece, possono provocare una carneficina”. E chi cavalca l’ingenuità della rete – secondo Morozov – rischia di provocare danni più gravi di quelli della speculazione finanziaria.

I Cinque Stelle in Italia, gli Indignados a Madrid, il popolo di Occupy Wall Street negli Usa, i manifestanti di Piazza Tahir al Cairo hanno in comune un sentimento di indignazione contro la casta della politica, contro l’alta finanza che specula sui risparmiatori, contro i dittatori che gestiscono la cosa pubblica come proprietà di famiglia. Ma a dare corpo a questi movimenti non c’è solo la rabbia, c’è anche il desiderio di superare la paura e la solitudine. La società del benessere ci ha resi sempre più atomi sociali, schiavi delle mode.

Internet è sembrata a molti lo strumento per uscire dal guscio, per affacciarsi in una piazza digitale, per incontrare nuovi “amici”, per costruire una comunità (anche se virtuale).

Gli stessi protagonisti dei movimenti evidenziano il limite di queste risposte, quando avvertono l’esigenza di passare dalla Rete alla piazza reale. Le adunate a Piazza Tahrir dei manifestanti egiziani o a Piazza san Giovanni a Roma dei grillini sono il segno di un bisogno di passare dal virtuale al reale. Un bisogno che gli amici del Web divengano compagni di strada, che la comunità virtuale si trasformi in una compagnia nella vita di ogni giorno, che la protesta gridata sulla Rete si trasformi in progetto politico.

Nelle Rete, come ben sanno i genitori che dialogano coi figli lontani, si sta insieme (connessi) ma soli. E purtuttavia essa ci dà l’impressione di poter essere protagonisti, di poter partecipare a una specie di “wikipolitica” dove ognuno di noi può dire la sua sul programma di un partito e cambiarlo.

Nel Movimento 5 Stelle, tuttavia, questo desiderio di partecipazione del popolo grillino si scontra con la figura del capo che decide monocraticamente. E la Rete, simbolo della web-democrazia, diviene, nell’uso che ne fa Grillo, una fotocopia della tv: unidirezionale e autoritaria, tutti possono dire la propria parola, ma solo uno decide. È questa, come ben descrivono Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini nel volume “Il partito di Grillo” (Il Mulino, 2013), la contraddizione più stridente tra “un capo unico al comando e le folle in espansione di cittadini desiderosi di partecipare”.

Questa contraddizione, al momento, è coperta dall’ ingenuità internettiana, che si alimenta di un clima culturale diffuso in tutto l’Occidente: il Web, in questa visione di nuova utopia, dovrebbe finalmente a realizzare gli ideali hippie degli anni Sessanta: «aumentare – scrive Morozov − la partecipazione democratica, innescare una rinascita delle comunità in declino, rafforzare la vita associativa».

È senz’altro realistico sostenere, come ha fatto di recente Grillo in un’intervista a Time, che il M5S ha incanalato la rabbia della gente evitando gravi conflitti sociali e che se il movimento fallisse si arriverebbe alla violenza nelle strade. Ma è altrettanto vero che la responsabilità di quella violenza sarebbe anche di chi ha innescato la “bolla democratica”, di chi ha fatto credere che con il Web si sarebbe automaticamente cambiato il mondo.