La sociologia, come tutti sanno, è una scienza nata nel pieno dell’affermazione della società moderna. Dalla modernità, come processo culturale, ha tratto miti e speranze, cautele metodologiche e qualche fantastico delirio. Scienza positiva per eccellenza, ancorata allo studio della sola realtà osservabile, ha funzionato come area severamente critica contro le ideologie del novecento. Ancora oggi si deve alla sociologia la capacità di rivelare connessioni e contraddizioni dei singoli fenomeni sociali, spesso destinate a restare occulte. Tuttavia la sua forza è anche la sua debolezza: dinanzi alle dimissioni di Papa Ratzinger, al conclave ed all’intronizzazione di Papa Bergoglio, le interpretazioni laiche non esitano a ricorrere ad un solo paradigma, l’unico che la modernità conosce: quello conflittualista. Da qui la tentazione ad affidarsi alla sola ricerca delle indiscrezioni, alla quale vengono sommate le interpretazioni iperboliche delle diversità che ne emergono.
Si arriva così a proclamare l’irriconciliabilità delle posizioni tanto che, alla fine, non possono esserci che vincitori da un lato e sconfitti dall’altro, in una lotta irriducibile tra il “partito della tradizione e quello dell’innovazione” per una Chiesa ridotta a fotocopia del Parlamento. Con un’aggravante: che mentre in quest’ultimo il conflitto è esplicito e quindi concretamente osservabile, nella Chiesa poiché è discretamente taciuto, bisogna andarselo a trovare. Proprio per questo, inizia la ricerca degli indizi, che porta ogni differenza ad essere la rivelatrice di un’opposizione, ogni comportamento ad essere l’indicatore di una strategia e di una sensibilità che rinviano a differenze radicali. Come ha rilevato con rammarico Cristiana Caricato, nel delirio interpretativo che spesso caratterizza molti miei colleghi – ampiamente visibile anche al di là delle frontiere nazionali (basta leggere Le Monde) – ogni diversità è interpretata alla luce della categoria del conflitto. Impiegheranno così diverse settimane (in qualche caso diversi mesi e qualcuno non lo capirà mai) a comprendere come la natura della Chiesa, quando la si vuole analizzare, obblighi a temperare e limitare profondamente il paradigma conflittualista per andare alla ricerca di un vocabolario ben più ampio.
L’opposto del conflitto, nella dinamica di questa istituzione, non è il “consenso”, ma la “relazione caritatevole” che è la capacità di vedere, ad ogni passo, la verità che l’altro si porta dentro, la passione (Julián Carrón direbbe “il desiderio”) che l’altro si trascina dietro, ne muove i passi e ne decide le scelte. Il conflitto, che pure esiste, va costantemente riletto alla luce di questa pervicace ricerca di ciò che unisce, ed il senso di una tale unità è cercato e trovato dai padri conciliari attraverso la preghiera.
Proprio per questo, ogni decisione è preceduta da una dimensione liturgica, dove l’Altro attira a sé, obbliga ad uscir fuori da qualsiasi tensione. Non c’è istante del conclave che, attraverso la preghiera e la liturgia, non sia stato costantemente marcato da riferimenti espliciti ed impegnativi a ciò che la Chiesa ritiene di essere (e per me è): l’annunciatrice dell’Incarnazione e la testimone della Resurrezione del Figlio di Dio. Da qui il rinforzo costante di una dinamica unitaria particolare, la relazione fraterna, che è un criterio relazionale assolutamente periferico nel mondo moderno e secolare e che, proprio per questo, molti dei miei colleghi sociologi non sanno tradurre. Nel vocabolario conflittualista, infatti, un tale termine non ha alcun senso, al massimo si parlerà di “alleanze”.
Ragionando in termini di relazione fraterna si riesce ad andare molto più lontano di quanto non accada con la sola interpretazione conflittualista. Si riesce a capire, ad esempio, l’armonia d’intenti tra gli ultimi tre pontefici, dove il primo ha “svegliato” una cattolicità ricurva su sé stessa, esortandola a “non avere paura”; il secondo le ha restituito rigore concettuale e lucidità logica nell’analisi della presenza di Cristo nel mondo, permettendoci di superare le banalità e le ambiguità di letture ideologiche che permanevano; il terzo, da quello che già si vede, ci riporta verso l’operare, la presenza visibile e lucidamente operativa della Chiesa nel mondo. Senza le premesse degli altri due l’opera di Papa Francesco avrebbe dinanzi a sé l’onere di lavorare su di un terreno molto più impervio, dove molte contraddizioni resterebbero ancora ben presenti ed il rischio di confusione resterebbe molto alto.
Una tale lettura interpretativa, ovviamente, va più lontano e non è difficile distinguere come, più in generale ed in ogni periodo, dal secondo dopoguerra ad oggi, i padri conciliari abbiano finito con il donare alla Chiesa ciò che veramente occorreva. Opera dello Spirito? Certamente; sul piano empirico resta il fatto che ad ogni concilio i padri abbiano pregato e la Chiesa assieme a loro. Qualsiasi interpretazione non può prescindere da un tale dato di fatto.