Non è cosa oziosa riflettere per un momento sulle somiglianze e le differenze fra i due vuoti che si sono creati a breve distanza di tempo nella vita pubblica italiana: le volontarie dimissioni – la renuntiatio – del Papa e la dismissione di un certo assetto politico. La differenza di atmosfere non poteva essere più chiara: da un lato, la serenità pensosa; dall’altro, l’agitazione nervosa, a tratti cupa. Per capire questa differenza, può essere utile considerare alcuni dei concetti chiave che sono subito emersi nel discorso sociale. La rinunzia papale è stata letta sotto l’egida di due grandi concetti spirituali come la libertà e l’umiltà; e non c’è bisogno di sottolineare quanto poco queste nozioni siano applicabili alle odierne peripezie parlamentari. Eppure c’è almeno un concetto importante che si impone all’attenzione come raccordo fra due esperienze così diverse: l’idea di modernità. Essa è già apparsa in alcuni commenti sul gran gesto di Benedetto XVI – anche se accompagnata da una certa, comprensibile, diffidenza. E non soltanto perché la renuntiatio non può evidentemente essere letta come una sorta di ammodernamento ai vertici di un qualche partito o di una qualche industria; ma per una ragione più profonda.
La Chiesa ha sempre avuto un rapporto conflittuale con la modernità – e va detto chiaramente che questo è uno dei più importanti aspetti del (come scriveva Chateaubriand) genio del cristianesimo, e più specificamente del cattolicesimo. Il culto della modernità come valore assoluto, che poteva avere un valore dirompente al crinale fra Ottocento e Novecento, ha finito con il logorarsi e superficializzarsi – e il “post-moderno” non ha saputo veramente cambiare la situazione (la sua stessa denominazione è il simbolo di un rapporto di dipendenza). I momenti in cui il moderno è stato pensato e vissuto in profondità sono i momenti in cui si è riconosciuta l’indispensabilità di un dialogo costante e di un rispettoso confronto con l’antimoderno, con la tradizione. Il cattolicesimo ha continuato saggiamente a vivere il moderno nella sua dialettica con l’antimoderno.
E questo ci porta alla renuntiatio – che giustamente continua a essere oggetto di discussioni teologiche e politiche (e magari di teologia politica); ma sulla quale io propongo un piccolo pensiero che ha piuttosto a che fare con l’estetica. Vi è, nel gesto del Papa, un elemento di imprevedibilità, di seria provocazione, che riporta alla mente l’atmosfera di discorso artistico-filosofico rappresentato da quella che si chiama l’avanguardia storica.
Allora, sto parlando di un Papa futurista? Ma no, al contrario: una delle componenti della gran rinuncia è che essa ci fa riscoprire l’intensità spirituale che stava dietro quei movimenti (futurismo, dadaismo, surrealismo e simili), sotto le apparenze in larga misura ingannevoli del loro materialismo e anticleralismo. Il Papa ci ha aiutato a ripensare il momento dello strappo, il rischio del desiderio che si butta a creare una situazione nuova e non ancora pienamente calcolabile. Ultima precisazione, allora: così come non sto parlando di un Papa avanguardista, bensì della spiritualità dell’avanguardia, allo stesso modo non sto parlando di un (per esempio) Grillo pontificale, ma al contrario del desiderio di trascendenza − nel senso più semplice e fondamentale di trascendere una situazione − che sta alla base di quello scatto, di quello strappo, di quella lacerazione che le elezioni politiche hanno portato alla luce; il desiderio che nutre la vocazione, quasi commovente nella sua evidenza narcisistica (ma pur sempre vocazione), dell’attore.
Che errore, allora, guardare con degnazione a chi viene dalla professione del comico! Ma, beninteso, la differenza permane: il Papa è garantito dal retaggio dello spirito, che resiste; il politico laico può perdere da un momento all’altro il senso della trascendenza-di-situazione, e scomparire nel vuoto − come il funambolo cantato da Nietzsche.