Non avevamo capito. Eppure era tutto lì, tutto davanti a noi, fin dal primo giorno: Benedetto. Stava in quel nome il segreto di tutto e nelle parole che pochi minuti dopo avremmo sentito per la prima volta, e che tante altre volte avremmo poi riascoltato fino ad impararle a memoria: “un umile lavoratore nella vigna del Signore”. Credevamo, forse all’ombra del cinismo imperante con cui viviamo, che quel nome e quelle parole fossero “bella poesia”, suoni di circostanza che un Papa deve dire. 



E invece no. Otto anni dopo noi capiamo che avere incontrato nella nostra storia Joseph Ratzinger significa essere entrati nel Suo rapporto con Cristo, essere stati introdotti nella Sua fede che altro non è che un dialogo fra l’umanità di Joseph e la persona di Cristo. Diventando Benedetto, egli ha mostrato ad ognuno di noi come il suo desiderio non fosse quello di “essere Papa”, ma semplicemente quello di obbedire al Bene incontrato e riconosciuto nella vita, partecipando con tutto il proprio Io all’Opera e al Disegno del Suo Signore. Si è comportato come un monaco che, invitato dai suoi compagni monaci, è divenuto Abate, riconoscendo in quell’invito la chiamata di un Altro, pronto a lasciare l’ufficio e a ritornare fratello tra i fratelli non appena il Signore glielo avesse chiesto attraverso i segni fragili della propria carne. 



È come se ci avesse detto che ciò che è decisivo per ognuno di noi non è il successo (la riuscita), ma la crescita del nostro Io. E in tutti questi anni, nei tempi della brezza leggera come in quelli del vento avverso, il monaco Benedetto – proprio perché certo di essere stato chiamato – non ha trattato la barca su cui attraversava il mare della storia come sua e non ha mai avuto il dubbio, anche nell’ora più buia, che il Signore dormisse. Joseph Ratzinger è l’ultimo monaco d’Occidente proprio per questo: mentre nel mondo orientale il monachesimo è abbracciato come scelta del singolo in vista di un cammino di perfezione spirituale sempre maggiore, in Occidente è Dio che chiama a diventare monaci ed è nel dialogo con Lui – attraverso i segni e le circostanze della storia – che si sviluppa la maturità umana e spirituale del singolo. 



È proprio la storia di un uomo quella che abbiamo visto, non la cronaca di un potere o il cammino di un’istituzione: in Benedetto XVI noi abbiamo toccato con mano in maniera incontrovertibile che, quando l’uomo stima davvero la propria umanità, fino a riconoscerla come il luogo del dialogo con Dio, la vita diventa un’imprevedibile risposta alle imprevedibili domande del Mistero e – senza fare niente di più – come sia proprio questo ciò che impressiona e che commuove chi vi assiste, perché è il dialogo che ogni cuore desidera. 

 Tutti siamo stati calamitati dal vedere un uomo così, al punto che per difenderci dal terremoto che spesso ha provocato in noi, abbiamo dovuto inventarci mille giustificazioni per i suoi atti e per le sue parole senza voler cedere alla spiegazione più semplice: Egli ha sempre e solo risposto al Signore che lo chiamava. 

Questa è la fede: riconoscere nella realtà quella Presenza buona che si muove non con i soliti criteri dell’ideologia umana, ma con la forza della fantasia che, nello spazio della ragione, ci invita a fare il grande passo del nostro sì continuo e instancabile alla volontà di Dio. Per questo non si può guardare Benedetto e poi avere lo stesso sguardo sull’amico che ci ha tradito, sul marito che non cambia, sui figli che non crescono, sul lavoro che manca o sulla politica che non trova il Bene comune: Egli ci ha mostrato il mondo nuovo, quel mondo che nasce dal sì della mia carne alla carne di Cristo. 

Fa effetto ricevere una simile lezione nei giorni in cui i media ci spiegano che per uscire dall’impasse economico e politico del nostro paese bisogna farsi furbi e diventare astuti, trovare formule e strategie: il Papa, nel Suo essere Ostia indifesa che si lascia trasformare dalle Parole del Signore, ci dice esattamente l’opposto. Occorre semplicità per essere grandi: occorre la semplicità del nostro sì alle circostanze donateci da Dio per essere presenze che incidono e che cambiano la storia. 

Molti hanno detto che alle due encicliche teologali di Benedetto, quella sulla speranza e quella sulla carità, manchi l’enciclica sulla fede. Eccola, cari amici: la possiamo leggere “viva” in questi giorni. L’ultimo monaco d’Occidente risponde ancora una volta alla chiamata del Suo Signore e si ritira su un alto monte a pregare, diventando pellegrino obbediente al seguito del nuovo Abate scelto dallo Spirito di Dio. Quasi a dire che il mondo nuovo non è quello che costruiamo noi con le nostre decisioni arbitrarie, ma quello che sorge in noi ogni volta che, con il cuore in mano e il desiderio della vita negli occhi, rispondiamo sì all’avvenimento di Dio che inaspettatamente ci smuove e ci interpella dentro i passi della vita. Per cui l’unico peccato, il vero peccato, è la fuga dalla Croce, è smettere di dialogare col Mistero presente in nome di quello che sento e che penso. 

Benedetto non fugge, Benedetto rifonda l’occidente spaccando l’orgoglio di ogni autonomia umana e indicando agli uomini l’unica Opera possibile: essere umili lavoratori nella vigna del Signore costruendo tutti i giorni in noi la risposta d’amore che Dio, e la nostra dignità, ci chiedono e si meritano. Non è poco, è l’inizio per tutti di una nuova era.

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