Il genio non è evidentemente questione di tempo. A Georg Büchner sono bastati infatti gli ultimi tre anni di vita (nacque, come Wagner, nel 1813, e morì di febbre tifoidea appena ventiquattrenne nel 1837) per diventare uno dei più grandi drammaturghi della storia. Non è questione di tempo – né di pazienza o di maturazione – neanche una esplosiva vocazione alla ricerca della giustizia sociale, visto che la breve vicenda biografica di Büchner è indissolubilmente legata all’attività rivoluzionaria nel contesto del Granducato d’Assia: sua è la fondazione della «Société dei diritti dell’uomo»; suo è Il Messaggero Assiano, pamphlet di agitazione sociale che lo costrinse, nel 1835, a lasciare il Granducato per fuggire a Strasburgo: il popolo infatti scelse, nonostante tutto, di rimanere fedele al Granduca.
È proprio da questa sconfitta che nasce il suo primo testo teatrale, La morte di Danton, rievocazione visionaria e poetica ambientata negli anni della Rivoluzione Francese. Ma, soprattutto, La morte di Danton è sì il testimone di uno scacco, ma anche il luogo di una verifica: le istanze politiche e sociali si dimostrano infatti incapaci di esaurire tutta la profondità della “questione umana”. Anzi (sembra dirci Büchner): un tentativo di azione storica che punti tutto sulle categorie della sola agitazione sociale finirà sempre – fatalmente – per determinare l’apertura di uno spazio tragico: un’insolubilità. Il testo parla chiaro. Quando, nel primo atto, Lacroix chiede al radicalissimo Danton come e perché si sia arrivati a quel punto – il Terrore, il ’93, le esecuzioni capitali dello sfrenato giustizialismo robespierriano – questi risponde:
“A questo punto? Be’, tutto sommato mi annoiavo. Andare in giro sempre con la stessa giacchetta, fare sempre le stesse facce. Fa pietà. Essere uno strumento tanto meschino in cui una corda dà sempre lo stesso suono! Insopportabile! Volevo sistemarmi comodamente. Ci sono arrivato: la rivoluzione mi mette a riposo, in modo diverso però da come pensavo io. Del resto, su chi appoggiarsi? (…)
È stato commesso un errore quando siamo stati creati; ci manca qualcosa, non so che nome darle… ma non la troveremo di sicuro frugandoci vicendevolmente nelle viscere; a che scopo, allora, sventrarci uno con l’altro? (…)
Per quanto tempo ancora l’umanità dovrà divorare le proprie membra nella sua eterna fame? Oppure: per quanto tempo ancora noi, naufraghi sul relitto, dovremo nella nostra sete inestinguibile, succhiarci il sangue dalle vene? Oppure: per quanto tempo ancora noi, algebrici della carne, dovremo scrivere i nostri conti con le membra tagliate, alla ricerca di quella x sconosciuta ed eternamente rifiutata?”
Sono domande che gridano. E basterebbe appunto la potenza di una perorazione come questa per dare la misura di come La morte di Danton rappresenti e insceni non (solo) il fallimento della pretesa rivoluzionaria, ma la natura stessa di quelle pretese; nonché la bruciante differenza di potenziale fra la “capacità” del cuore umano e la dimensione dell’azione puramente politica. È sincero, sincero sino alla ferocia, Büchner, quando pone la radice di ogni tentativo rivoluzionario in un solo, disperato desiderio: quello di un’identità. I sanguinari repubblicani di Büchner fanno quello che fanno al solo scopo di essere qualcosa; e il Terrore, le ghigliottine, non sono che un modo – per quanto violento – per risolvere, coprendola, la questione dell’essere al mondo: un tentativo quindi di essere. Quando Lacroix riferisce a Danton che «Collot sbraitava come un ossesso dicendo che bisognava strappare tutte le maschere», questi risponde: «Sì, così se ne van via anche le facce». L’urgenza d’essere, di rispondere alla chiamata che l’essere di per sé finisce col costituire, tende ineluttabilmente a saltar fuori: «Quel maledetto principio per cui qualcosa non può annullarsi! E io sono pur qualcosa: questa è la disgrazia!».
È proprio Danton l’eroe (un eroe, quindi, disperatamente tragico) che scoperchia lo scandalo del non bastarsi, dell’insufficienza dell’azione. La sua tragedia avviene infatti su più fronti: non solo quello della sconfitta umana e conoscitiva, ma anche su quello della distruzione fisica: Danton viene giustiziato in nome della Repubblica. La nuova storia (la stessa che faceva dire, assai profeticamente, a Balzac: «Da adesso in poi governeranno i banchieri»), che nella Rivoluzione Francese ha il suo primo momento “istituzionale”, non perdona né può tollerare l’emergenza umana di un uomo come il Danton büchneriano. Così un frammento di dialogo fra Danton e Robespierre:
Danton: Io mi vergognerei di correre per trent’anni fra cielo e terra sempre con la stessa fisionomia morale, solo per il gusto di trovare gli altri peggiori di me. Ma non c’è dunque niente in te che qualche volta, sottovoce, segretamente, ti abbia detto: “Tu menti, menti!”?
Robespierre: La mia coscienza è pulita.
Danton: La tua coscienza è uno specchio di fronte al quale si tormenta una scimmia; ognuno s’imbelletta come può e a modo suo ci cava il proprio divertimento.
C’è, in questa rivoluzione rappresentata da Büchner, una nota di fondo, come un basso ostinato: un sentimento di solitudine. Che è come la cartina di tornasole dell’agire drammaturgico dei personaggi: domina ogni gesto, non vuole andar via: «Cosa ne so! Sappiamo così poco l’uno dell’altro. Siamo pachidermi, tendiamo le mani l’uno verso l’altro, ma è fatica inutile; non facciamo altro che sfregarci vicendevolmente questo ruvido cuoio, siamo veramente soli».
E ancora più lontana e sommessa, ma sempre presente – e insistente – è la principale, la più titanica pretesa rivoluzionaria: la tentazione cristica di redimere l’uomo, di farsi pari a Dio. Così Robespierre in un suo monologo: «Sì, messia di sangue, io: ma che sacrifica e non viene sacrificato. Lui li ha redenti con il suo sangue, e io li redimo con il loro. (…) Chi ha avuto più abnegazione, io o lui? Eppure c’è qualcosa di folle in questo pensiero. Perché guardiamo sempre e soltanto a Lui? Davvero che il figlio dell’uomo viene crocifisso in noi tutti, tutti lottiamo nell’orto del Getsemani in un sudore di sangue, ma nessuno redime il prossimo con le proprie ferite. Oh, Camille! Tutti se ne vanno da me e tutto è vuoto e deserto: sono solo».
La morte di Danton – lo si è detto – non è solo la notifica di una sconfitta: è una provocazione. Una provocazione ad instancabilmente verificare: quale tipo di azione libera l’uomo, e quale lo mortifica. Che cos’è la politica e quali sono i suoi limiti. E soprattutto un pungolo a stare nelle cose con quella tesa attenzione, quella disponibilità a lasciarsi ferire, che faceva dire a Büchner, allora un ragazzo di ventitré anni: «Il più piccolo trasalimento del dolore, e sia pur in un solo atomo, provoca un laceramento nella creazione da cima a fondo».
Quello stesso ragazzo, che alla rivoluzione non seppe trovare alcuna ragionevole alternativa, faceva dire ad uno dei suoi personaggi, con un altissimo e struggente fremito di desiderio: «Come corre quell’uomo! Se solo conoscessi qualcosa in questo mondo che sapesse farmi correre!».